venerdì 27 dicembre 2013

Il Governo alle prese con il processo (poco) civile

Con un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri il 17 dicembre 2013 il Governo ha inteso mettere mano ad un processo civile che, secondo tutti gli osservatori, rappresenta uno degli ostacoli principali allo sviluppo economico del nostro Paese. Purtroppo negli ultimi anni gli interventi legislativi hanno soltanto reso il sistema più instabile e complicato, senza risultati rilevanti sulla riduzione del processo e sulla sua efficienza.
Anche l'ultima proposta governativa si muove su questa ambiguità di fondo: partire da princìpi giusti per poi tradurli in norme confuse, tralasciando invece quei suggerimenti che circolano in ambienti legali (seppure in poche e inascoltate "isole felici") e che potrebbero garantire il risultato che la politica si propone da tempo.
Cominciamo dalle buone intenzioni, com'è sicuramente quella di attribuire al giudice il potere di disporre, quando si tratta di causa semplice, il passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Per i non addetti ai lavori, il primo è il processo civile "normale", mentre il secondo ne è una versione "ristretta", con minori rigidità soprattutto nella fase istruttoria e dell'assunzione delle prove. Il problema è che già oggi accade spesso che il giudice passi dal rito sommario a quello ordinario: si verifica quindi l'esatto contrario di quanto auspica il disegno di legge, il che solleva leciti scetticismi sull'efficacia del meccanismo, anche perché si rischia di trattare con due procedimenti diversi (ordinario e sommario) due cause simili solo perché un giudice ha discrezionalmente ritenuto "semplice" una causa che l'altro ha ritenuto complessa, cosa che non garantisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l'uguale tutela del diritto al contraddittorio.
Un'altra buona intenzione, inseguita però in modo assai dubbio, è quella di diminuire il carico dei giudici di primo grado e di appello. Ai primi viene attribuito il potere di emettere una sentenza in "formato tascabile", mi si perdoni l'atecnicismo: potranno infatti limitarsi a redigere il dispositivo (cioè la parte che accoglie o respinge la domanda, condanna una parte o l'altra etc.) accompagnato dall'indicazione dei fatti e delle norme sulle quali si fonda la decisione, rimettendo alle parti la scelta se richiedere la motivazione estesa ai fini dell'impugnazione della sentenza.
Dicono infatti gli autori della riforma: poiché soltanto il 20% delle sentenze rese in primo grado sono impugnate e circa il 77% di queste ultime sono confermate, il giudice di primo grado non deve perdere tempo a scrivere le motivazioni della sentenza a meno che non glielo chieda espressamente la parte che intende fare appello. Meglio che il giudice spenda quel tempo nelle altre cause. In realtà questa idea è quasi surreale per almeno due ragioni: se non so quale ragionamento ha fatto il giudice per condannarmi, come faccio a proporre appello? Anche perché, e questa è la seconda ragione, il disegno di legge impone a chi vuole impugnare la sentenza (e quindi avere le motivazioni) l'anticipato versamento di una quota del contributo unificato dovuto per il grado successivo: il che vuol dire che devo pagare una parte delle spese del giudizio d'appello solo per avere le motivazioni e decidere se impugnare o meno. Un paradosso, visto che un grande giurista del passato diceva che il più alto segno di civiltà giuridica è la motivazione della sentenza: del resto l'art. 111 della Costituzione stabilisce che "tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati".
Meno dissennata, invece, è l'idea di consentire ai giudici d'appello di rifarsi alla motivazione già esposta dal giudice di primo grado, ovviamente in caso di conferma del provvedimento impugnato, sempre per "risparmiare tempo"; così come è buona l'idea di assegnare a un organo monocratico anziché collegiale gran parte delle cause d'appello, limitando a pochi e più delicati casi l'intervento del collegio.
Ha fatto infuriare gli avvocati, poi, la norma che prevede che anche il difensore paghi insieme al cliente in caso di condanna per la cosiddetta lite temeraria, una regola che molti hanno definito punitiva nei confronti dei legali, ma che in realtà non mi sembra così scandalosa: la lite temeraria sussite in caso di mala fede o colpa grave; ciò significa o che chi ha agito/resistito in giudizio sapeva di non avere alcun diritto, e quindi ha causato un danno alla controparte col suo comportamento scorretto, oppure che non si è attenuto alle regole professionali (nel caso dell'avvocato) o alle regole del buon senso (nel caso del cliente), preferendo intasare i tribunali e ostacolare le giuste pretese dell'altro senza alcuna ragione di diritto. "Fare causa" è un diritto, non un obbligo: chi abusa di questo diritto va punito come accade per l'abuso di qualsiasi altra posizione giuridica di vantaggio.
Molti altri sono gli aspetti controversi delle proposte venute dal Consiglio dei Ministri, mentre - come si diceva in apertura - restano irrisolti alcuni nodi. Ne cito due, solo per dare uno spunto di riflessione.
Primo: perché non puntare ad uno snellimento del rito ordinario? Al momento, il processo civile ordinario prevede che l'attore citi in giudizio il convenuto: i due si "fronteggiano" con due atti diversi (citazione e comparsa di risposta), ai quali rispondono con le "memorie 183", ovvero tre atti distinti; poi ci sono le udienze per sentire i testimoni; poi, finalmente, le parti si scambiano altre memorie (le comparse conclusionali) alle quali rispondono con ulteriori atti (memorie di replica)...e per presentare ognuno di questi atti le parti hanno a disposizione un tempo assai ampio che in linea di principio sarebbe anche corretto, ma che finisce per dilatare all'infinito il tempo dei processi visto che ogni giudice ne ha da fare centinaia e forse migliaia. Snellire questo batti e ribatti non è proprio possibile, tenendo conto del fatto che spesso alcune delle memorie citate rappresentano mere ripetizioni di ciò che è stato detto in precedenza?
Secondo: perché non introdurre nel nostro sistema i "danni punitivi"? Ne ho parlato in un precedente post: in breve, Tizio deve a Caio 2.000 euro e si rifiuta più volte di restituirli. Si difende anche in giudizio, magari in modo pretestuoso, e per di più fa pure appello e ricorso in Cassazione tanto per tirarla per le lunghe. Passano otto anni e finalmente Caio ottiene i sospirati 2.000 euro, che però Tizio non gli dà in contanti costringendo Caio a pignorare i beni dell'altro (e via altri soldi per l'avvocato). Bene: quanto ci vuole a mettere una regola che "punisce" seriamente tali comportamenti costringendo il debitore che resiste a risarcire il creditore con una somma pari (ad esempio) a dieci volte quella richiesta in origine? Forse molti debitori smetterebbero di sfuggire e onorerebbero le proprie obbligazioni. In America fanno così: il risarcimento non è commisurato solo al danno patito, ma anche al comportamento tenuto, e infatti lì chi ha torto non ha interesse ad agire o resistere in giudizio, mentre ha tutto l'interesse a pagare subito o a fare una transazione. Il risultato è che il processo si fa solo quando serve. Ma si sa, gli altri sono sempre matti: siamo noi che abbiamo capito tutto...

martedì 5 novembre 2013

Il mobbing sul lavoro: la tutela nell'ordinamento vigente

La legge italiana non disciplina in modo specifico il fenomeno del “mobbing”, cioè quelle forme di vessazione, prevaricazione e pressione psicologica compiute indebitamente nei confronti di una sola persona, solitamente sul luogo di lavoro. In mancanza di tale disciplina, le vittime di mobbing devono quindi affidarsi alla versione elaborata nei tribunali, chiaramente frammentaria perché ciò che può apparire vessatorio in un contesto lavorativo e sociale può non sembrare tale in un altro.
Leggendo le varie sentenze rese dai giudici italiani sul tema, si può affermare che la vittima di mobbing ha più chance di ottenere tutela sul piano civile, e quindi sotto forma di risarcimento, mentre resta più vaga e debole la protezione offerta dal diritto penale.
In ambito civile, le varie ipotesi di indebita pressione psicologica o anche fisica sul luogo di lavoro sono state ricondotte nella fattispecie di cui all’art. 2087 c.c.
L’art. 2087 stabilisce infatti che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Secondo la Cassazione, quindi, grava sul datore di lavoro un obbligo specifico di proteggere l’integrità psico-fisica del lavoratore (Cass., sent. n. 4184/2006).
Ciò anche alla luce di quanto affermato dalla sentenza n. 399 del 1996 della Corte Costituzionale: secondo quest’ultima, il diritto alla salute viene salvaguardato anche mediante condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo diritto essenziale, di rilevanza costituzionale.
Per cui l’art. 2087 non abbraccia soltanto le ipotesi di mobbing, ma ogni tipo di situazione che minaccia o lede il diritto soggettivo del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi (Cass., sent. n. 4840/2006).
Tale orientamento ha consentito addirittura di inquadrare nell’ipotesi dell’art. 2087 quei casi in cui i comportamenti vessatori, pur non unificati da un disegno unitario, abbiano avuto l’effetto di mortificare psicologicamente il lavoratore, causandogli un danno: tutto ciò, ovviamente, fornendo la prova che il datore di lavoro sia venuto meno all’obbligo di attivarsi per tutelare la personalità del lavoratore.
Sul piano penale, come dicevamo, la tutela è più sfumata: ferma restando la possibilità di punire i singoli atti di prevaricazione (ingiurie, molestie, minacce etc.), manca una figura di reato che reprima quelle forme di persecuzione espresse concretamente con tali atti, ma legate da uno stesso intento vessatorio. Ciò pone un problema non di poco conto, perché i reati di ingiuria, molestia o minaccia sono puniti in modo assai blando.
In alcuni casi, tuttavia, le ipotesi di mobbing sono state ricondotte al reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, previsto dall’art. 572 c.p., recentemente oggetto di una mini-riforma nel 2012: prima di tale riforma, mancava un riferimento alla “convivenza” (es.: coppie di fatto), ma già si estendeva il concetto di famiglia alle forme di coabitazione simili. Sulla base di ciò, la Cassazione ha ammesso l’applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche alle ipotesi di mobbing sul luogo di lavoro purché il contesto lavorativo si caratterizzi per modalità, abitudini, affidamento e fiducia tipici della comunità familiare (Cass., sent. n. 12517/2012; Cass., sent. n. 16094/2012).
In sostanza, la possibilità di reprimere penalmente il mobbing come una particolare forma di maltrattamento contro un convivente è legata al requisito della para-familiarità della relazione lavorativa, che dovrà essere provato dalla vittima dimostrando la particolare forma di organizzazione del luogo di lavoro, la qualità delle relazioni e l’informalità delle stesse, le consuetudini della vita lavorativa e così via.
Se dunque una minima tutela penale esiste,  è evidente che la vittima sopporta un onere della prova non certo leggero, e che ad ogni modo resta priva di ogni protezione una vasta area di episodi e situazioni: si pensi ai casi di dequalificazione o demansionamento della vittima per ottenere le sue dimissioni, o a quei casi in cui atti in sé legittimi (es.: richiami disciplinari, comunicazioni) siano utilizzati per uno scopo diverso dal normale, solo per mortificare il dipendente. 

giovedì 24 ottobre 2013

Danni da cattiva manutenzione delle strade: come agire

Uno degli incidenti più comuni che possano capitare nel corso della vita è, purtroppo, quello di inciampare su una strada sconnessa o di danneggiare la propria auto su una buca non visibile. La casistica legata a episodi di cattiva manutenzione delle strade è prevedibilmente sterminata, con la conseguenza che per ottenere una tutela sotto forma di risarcimento bisogna essere ben documentati e preparati. 
Cerchiamo di fare luce sull'argomento e cominciamo col dire che le strade che noi chiamiamo "pubbliche" possono appartenere o essere gestite dal Comune, dalla Provincia o da altri Enti pubblici ed è per questo che il danneggiato dovrà agire in giudizio contro uno di questi enti, a seconda della tipologia della strada.
Il problema principale per chi agisce (o meglio, per il suo difensore) è tuttavia quello di inquadrare correttamente ciò che è accaduto in termini di diritto, perché sul tema dei danni da insidie stradali si registrava fino a qualche tempo fa una certa oscillazione di vedute: negli ultimi anni va segnalato un progressivo consolidamento di tali orientamenti, grazie a recenti sentenze della Cassazione (per approfondire, ne cito alcune: n. 6903/2012, n. 2562/2012)
Senza scendere in tecnicismi inutili (lo scopo di questo blog è spiegare il diritto a chi non lo conosce, non agli avvocati), si può dire che il danneggiato deve sostenere un onere della prova relativamente "leggero" in due ipotesi:
1.Quando l'Ente gestore aveva la possibilità concreta di esercitare la custodia del tratto di strada, possibilità da valutarsi alla stregua di criteri quali l'estensione della strada, la posizione, le dotazioni e i sistemi di assistenza che la connotano;
2. Quando sia stata proprio l'attività compiuta dalla Pubblica Amministrazione a rendere pericolosa la strada medesima.
Facciamo un esempio per ciascuna ipotesi: la prima ricorre spesso quando il danno si è verificato su una strada comunale del centro abitato, che è continuamente sotto gli occhi del Comune per così dire; il secondo caso può verificarsi quando la strada è dissestata per lavori compiuti male o mal segnalati.
In questi casi l'onere probatorio è più snello perché secondo la Cassazione può applicarsi l'art. 2051 del codice civile, che considera responsabile il soggetto che ha la custodia di un bene per i danni causati dal bene stesso: pertanto il danneggiato dovrà provare solo il fatto, il danno e il nesso di causalità tra lo stato della strada e l'evento, mentre il custode sarà ritenuto responsabile in via presuntiva a meno che non dimostri che il danno sia attribuibile al caso fortuito (ad es.: il manto stradale era scivoloso perché poco prima un camion aveva perso grosse quantità di materiale oleoso, e quindi l'Ente custode non sarebbe potuto intervenire in alcun modo per evitare la caduta del danneggiato).
Fuori da questi casi, invece, il danneggiato potrà invocare solo l'art. 2043 c.c. e quindi dovrà provare non solo il fatto, il danno e il nesso di causalità, ma anche il dolo o la colpa del danneggiante. Quest'ultimo elemento psicologico rappresenta spesso un requisito difficile da provare: ad esempio si dovrà dimostrare che l'Ente proprietario fosse a conoscenza dello stato di dissesto, che non abbia provveduto per negligenza o che abbia causato lo stato di dissesto per imperizia; in alcuni casi è stato richiesto al danneggiato di provare anche il carattere insidioso del pericolo, oppure l'invisibilità ed imprevedibilità della fonte di danno (es.: una buca o un avvallamento).
Come si vede il sistema per tutelare i propri diritti è abbastanza complesso, per cui sarà necessario documentare le proprie pretese in tutti i modi possibili (fotografie, relazioni delle Forze di polizia, referti medici, testimonianze etc.) per avere maggiori possibilità di azione; allo stesso modo, la difficoltà della materia richiede da subito l'ausilio di un legale per inquadrare nel modo giusto l'accaduto e non ricorrere ad una tutela fai-da-te.
Per completezza bisogna ricordare anche quanto stabilito dalla sentenza n. 1310/2012 della Corte di Cassazione: se l'evento dannoso è stato causato anche da un comportamento colposo del danneggiato (ad es.: distrazione, elevata velocità etc.), costui potrà incorrere in un concorso di colpa e quindi beneficiare di un risarcimento minore, mentre non avrà alcun diritto al risarcimento se è stato il suo comportamento a recidere del tutto il nesso di causalità tra la fonte del danno e il danno stesso.

lunedì 21 ottobre 2013

Amnistia e indulto unica via? Ecco le alternative.

L'intollerabile situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, che ospitano circa 65 mila detenuti a fronte di una capienza di quasi 48 mila posti, è un argomento che in queste settimane è tornato alle cronache sotto forma di emergenza; tuttavia, non ci sarebbe nessuna emergenza se già sette anni fa la politica si fosse presa la responsabilità di fare quelle "riforme strutturali" di cui quotidianamente ci riempie le orecchie.
E infatti siamo di nuovo al punto di partenza rispetto all'ultima "emergenza carceri": alla vigilia dell'indulto del 2006 i detenuti in carcere erano 61.400, il che vuol dire che se con quel provvedimento ne uscirono 26 mila, nel giro di sette anni sono rientrati nelle patrie galere 30 mila detenuti (tutti i dati vengono dal Ministro della Giustizia Cancellieri).
Ormai i cittadini, anche sulla scorta di ciò, sanno bene che i provvedimenti di amnistia e indulto servono a poco e rischiano anzi di peggiorare lo status quo (come in effetti è accaduto). Quello che non sanno, perché i politici non lo dicono mai pensando solo alla via più breve per avere meno responsabilità e tamponare le falle in attesa di nuove elezioni, è che dal mondo del diritto vengono avanzate spesso molte proposte per risolvere questa situazione da Paese incivile, a costo zero per lo Stato e in modo stabile. Eccone alcune.
1. La prima intelligente proposta è sostituire le pene detentive con sanzioni interdittive. Cosa vuol dire? Che chi ha commesso certi reati, anziché andare in carcere, viene interdetto per un periodo di tempo dall'esercizio di una professione. Sei un commercialista che ha truccato il bilancio per una società? Per cinque anni non puoi esercitare. Sei un professore che ha truccato un concorso? Idem.
2. Seconda proposta: depenalizzare. Se qualcuno storce il naso, non mi riferisco ai reati "gravi", ci mancherebbe, ma a quelle fattispecie che pur non mandando in carcere nessuno affollano i tribunali di cause: il risultato è che i processi per i reati più gravi vengono rallentati e i detenuti in attesa di giudizio restano in carcere per più tempo. Esempio: Tizio dà dello "str...o" a Caio. Reato di ingiuria: Giudici di pace intasati per roba del genere che (ci crediate o no) arriva fino alla Cassazione, che invece di occuparsi di cose serie deve stabilire se l'insulto di cui sopra è tale da suscitare una lesione dell'onore così grande da offendere il bene giuridico protetto, se il "vaffa" è reato o meno etc. Altro esempio, l'imbrattamento dei muri: cosa gravissima, l'ABC della delinquenza si potrebbe dire. Bene: invece delle sanzioni penali, che comunque sono talmente esigue da non mandare in carcere nessuno per questo reato, perché non costringere l'imbrattatore a svolgere lavori utili per la collettività per qualche anno con sanzioni amministrative e non penali? Fatelo svegliare per due anni alle cinque per ripulire i muri della città, vedrete come gli passerà la voglia di delinquere. Noi invece preferiamo fargli un processo penale, magari per danneggiamento, per poi dirgli che lo condanniamo a un anno e mezzo, ma per scherzo: sei incensurato, la pena è sospesa. Va' e imbratta di nuovo: intanto abbiamo perso mesi interi e i carcerati in attesa di giudizio possono aspettare ancora.
3. Rivedere queste tre leggi: Bossi-Fini, Fini-Giovanardi ed ex-Cirielli. La prima ha introdotto il reato di immigrazione clandestina che molti vorrebbero abolire. In realtà, al di là di questo aspetto c'è sempre il solito problema: quando sbarcano 200 immigrati, il Tribunale competente deve seguire 200 nuovi indagati, per cui tutto rallenta e nessuno si occuperà dei detenuti in attesa di giudizio. Se proprio non si vuole abolire questo reato, perché non far scontare la pena ai clandestini nel loro paese d'origine anche quando commettono reati di altro genere oltre all'immigrazione clandestina? La seconda legge manda in carcere chi fa uso personale di droghe sulla base di una presunzione: se superi una certa quantità, presumo che tu sia uno spacciatore. Ora, sul sito del Ministero della Giustizia (dati giugno 2013) si legge che sono 26 mila i detenuti per droga, cioè più di un terzo della popolazione carceraria. Sono più dei detenuti per delitti contro la persona (omicidio, lesioni, violenza sessuale etc.): vi sembra un dato coerente con la situazione sociale? Ecco perchè andrebbe rivista la Fini-Giovanardi: perché non distingue tra consumatore e spacciatore, e fabbrica solo detenuti. La ex-Cirielli è quella che fa meno rumore, ma è altrettanto sciocca: tra le altre cose, ha reso i processi e la detenzione molto duri per i recidivi, con effetti paradossali. Nel 2009, a Napoli, un tizio è stato condannato a tre anni di reclusione per aver rubato un pacco di wafer che costava 1,29 euro, proprio perché non poteva beneficiare di alcune attenuanti (es.: danno di lieve entità) in quanto recidivo. E anche qui torna la domanda: ma perché un Tribunale dovrebbe occuparsi di un furto da 1,29 euro anziché di violenze sulle donne, omicidi stradali, pedopornografia etc? Non dico che queste leggi andrebbero abolite in blocco, ma sarebbe lecito almeno rivedere quegli aspetti che rallentano il sistema e fabbricano detenuti in contrasto con il senso comune.
4. Rivedere la disciplina sulla carcerazione preventiva. Circa 25 mila detenuti sono ancora in attesa di una sentenza definitiva e, quindi, secondo la Costituzione sono innocenti. In realtà questi dati andrebbero spiegati: 10 mila sono stati almeno giudicati in primo grado o anche in appello, ma 15 mila persone in carcere in attesa di una prima pronuncia sono comunque troppe. Bisognerebbe quindi sostituire la detenzione preventiva in carcere con quella domiciliare, almeno per i reati minori: all'estero hanno sperimentato il braccialetto elettronico per favorire i controlli, da noi è stato un fiasco peraltro molto costoso.
Per concludere, un ultimo dato: non è vero che l'Italia ha troppi detenuti, perché sono circa 107 per ogni 100 mila abitanti contro una media europea di 127,7. Abbiamo troppi politici incapaci, questo sì.

mercoledì 16 ottobre 2013

"Airport Security" contro la giustizia italiana: scusate il paragone

L’altro giorno guardavo un programma televisivo, “Airport Security”, che mostra cosa avviene alle dogane in Australia. Ho assistito a questa scena: un tizio prova ad entrare nel Paese con uno strano passaporto; l’ispettore doganale si insospettisce e dice di voler far analizzare il documento da un perito che viene chiamato telefonicamente e dopo mezz’ora si presenta, compie le sue indagini e conclude che il passaporto è falso. Al passeggero viene detto che entro un’ora verrà condotto in un centro di permanenza temporanea e rispedito al suo paese, e che il suo passaporto è sequestrato perché illegale. Nessun ricorso, nessun avvocato, nessuna scusante, nessuna scappatoia per perdere tempo: hai il passaporto falso? Torni a casa. Una cosa così importante, che può cambiare per sempre la vita di una persona pronta ad entrare in un altro Paese, decisa nel giro di qualche ora.
Allora mi è venuto in mente cosa succede in Italia quando si deve fare una perizia per cose molto meno importanti, per esempio stabilire dove stanno i confini tra due proprietà, e mi sono domandato: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad essere surreali? Non voglio mettere a confronto due contesti profondamente diversi tra loro e quindi non ho alcuna pretesa “scientifica”; l’intenzione è solo quella di evidenziare le diverse concezioni di giustizia che stanno alla base dei due sistemi, quello australiano e quello italiano, per riflettere sulla macchinosità del nostro.
Prendiamo il processo civile italiano: di solito il giudice dispone una perizia (“consulenza tecnica d’ufficio”, CTU) quando già le parti sono in causa e hanno depositato una serie di atti e memorie per i quali la legge prevede tempi abbastanza lunghi: poniamo caso di trovarci, nella migliore delle ipotesi, a circa un anno dall’inizio del processo.
Se è necessaria la perizia, ecco cosa accade: il giudice nomina il consulente, ma deve fissare una nuova udienza solo per farlo giurare e dirgli cosa deve fare. Voi direte: ma se agli Australiani basta una telefonata, perché noi non contattiamo il perito via p.e.c., ci facciamo inviare una sua dichiarazione giurata sempre via p.e.c., e comunichiamo alle parti la nomina e l’accettazione ancora via p.e.c., impiegando in tutto solo pochi giorni?
La risposta soffia nel vento, ma ad ogni modo da noi non si può fare: bisogna tenere un’udienza apposita, che naturalmente viene fissata a mesi di distanza perché ogni giudice ha centinaia, spesso migliaia di cause da trattare e udienze da tenere.
Si arriva all’udienza e il perito giura, poi fissa il “giorno di inizio delle operazioni” e passa qualche mese prima che depositi la perizia, alla quale (ci mancherebbe) le parti possono rispondere nominando propri esperti che dialogheranno col consulente del giudice scambiandosi perizie di parte, note critiche, precisazioni, integrazioni... il tutto va avanti per qualche mesetto, a volte anche per anni: spesso è necessario persino un “supplemento” alla perizia.
Dopo tutta questa tiritera, chiusa la fase di assunzione delle prove, le parti “sintetizzano” ciò che è successo in ulteriori memorie prima che il giudice decida: se tutto va bene, ci vogliono 5-6 mesi ancora per arrivare alla decisione (ma sono quasi sempre molti di più).
Una volta pubblicata la sentenza sapremo finalmente se la perizia era giusta e a chi ha dato ragione, sperando che nessuno impugni la sentenza stessa proponendo appello e poi, eventualmente, ricorso in Cassazione.
In conclusione, se lo scopo di una perizia è quello di stabilire come stanno i fatti per poter aiutare qualcuno a decidere, in Australia quello scopo viene raggiunto in qualche ora; in Italia, dopo qualche anno.

Ripeto: sono due contesti del tutto diversi e non “mescolabili”, ma almeno il linea di principio vi giro la domanda: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad essere surreali?

mercoledì 18 settembre 2013

Guida rapida ai casi di scioglimento del contratto

Volendo utilizzare un termine generico, lo scioglimento di un contratto può avvenire per varie ragioni, ciascuna delle quali si "traduce" in rimedi giuridici differenti, basati su presupposti precisi e aventi conseguenze diverse.
Pensiamo a quando ci leghiamo ad una società per ottenere un certo servizio (fornitura di energia, lavori di ristrutturazione etc.): può accadere che questo servizio non ci venga erogato, che la società ci abbia ingannato su ciò che ci offriva, che - più semplicemente - intendiamo liberarci da quel contratto per un ripensamento...
Ecco perché in questo post individueremo i casi più frequenti di cessazione del rapporto contrattuale, senza pretese di completezza: lo scopo è soltanto quello di spiegare la terminologia usata dal nostro codice civile per avere le idee più precise nel caso in cui dovessimo deciderci a rompere l'accordo.
Cominceremo col dire che non sempre lo scioglimento del contratto è voluto solo da una parte: se per concludere il contratto è necessario il consenso di tutte le parti, è chiaro che le stesse parti possono concordare per lo scioglimento. Ecco perché una prima causa di rottura del vincolo può essere il mutuo consenso (o mutuo dissenso).
Una causa frequente di scioglimento del contratto è invece la risoluzione: con questo termine si intende, nel caso più ricorrente, il rimedio concesso contro la parte inadempiente, cioè la parte che non ha tenuto fede ad uno o più obblighi derivanti dal contratto. Un esempio semplice: ho concluso un contratto con un'azienda telefonica che si era impegnata ad attivarmi un servizio, ma ciò non è avvenuto. Oppure: Tizio si è obbligato a consegnarmi del materiale per il matrimonio di mia figlia entro il giorno della cerimonia, ma non ha adempiuto per colpa propria rendendo inutile un adempimento successivo (cosiddetto "termine essenziale"). Altri casi di risoluzione possono invece andare a beneficio della parte inadempiente, anche se ciò può sembrare strano: può accadere, infatti, che io non possa più eseguire la prestazione per una causa non dipendente da me e che rende impossibile onorare il contratto (c.d. "impossibilità sopravvenuta"). Un esempio classico: mi impegno a consegnare tre scatole di un prodotto farmaceutico che, però, viene dichiarato illegale dopo aver concluso il contratto.
Si può dire, in generale, che i casi di risoluzione sono accomunati dal verificarsi di un evento "traumatico", successivo alla conclusione dell'atto e spesso imputabili ad una parte; tant'è vero che a volte, come nel caso dell'inadempimento, oltre alla risoluzione è possibile chiedere anche un risarcimento.
Vi sono invece dei casi in cui l'evento che legittima lo scioglimento del vincolo è contemporaneo alla conclusione, come avviene nelle ipotesi di rescissione del contratto quando questo è stato concluso: a) in stato di pericolo, con condizioni inique per un soggetto (l'esempio di scuola è la guida alpina che, approfittando dello stato di pericolo di una persona che rischia di precipitare, chiede una cifra esorbitante per il salvataggio); b) in stato di bisogno, con lo sfruttamento di tale stato e squilibrio delle prestazioni (esempio: vendo un bene ad un prezzo molto più basso del suo valore perché ho bisogno di comprare delle medicine che non potrei procurarmi altrimenti).
Sono ulteriormente diversi i casi in cui, a prescindere da eventi "traumatici", viene concessa ad una parte la possibilità di sciogliere unilateralmente il vincolo, senza dover pagare nulla e senza la necessità del consenso della controparte: ciò avviene con il recesso dal contratto, un diritto accordato di solito al "contraente debole", per esempio al consumatore o all'acquirente di una certa merce.
Vale la pena, infine, spendere alcune parole anche sui casi in cui si intenda far valere la invalidità di un contratto: termine, questo, usato genericamente in diritto per indicare la non corrispondenza dell'atto rispetto ai requisiti indicati dalla legge: in breve, possiamo dire che il contratto è nullo se manca di alcuni requisiti essenziali prescritti dalla legge (ad es. la forma scritta, se è richiesta), o il consenso delle parti; è annullabile per vizi "meno gravi" rispetto a quelli che determinano la nullità, come quando il consenso c'è, ma è stato inficiato da un errore (ad es. sulle qualità di un bene).

venerdì 6 settembre 2013

Foto dell'ex coniuge su Facebook: sono utilizzabili in giudizio?

Uno degli aspetti più interessanti del diritto è la necessità di adeguare le norme e la loro interpretazione al mutare dei tempi: pensiamo alle nozioni di "comune senso del pudore" o di "buon costume" che ancora resistono nella nostra legislazione, seppur con contenuti diversi da 50 anni fa. I giuristi parlano di "diritto vivente" proprio con riferimento a questo fenomeno, molto visibile soprattutto nelle interpretazioni dei tribunali.
Non deve stupire, pertanto, che anche i contenuti divulgati su Facebook finiscano ormai costantemente negli atti giudiziari: c'è chi viene diffamato tramite i social network, chi viene perseguitato o molestato, chi scopre una relazione extraconiugale proprio grazie ai "tag" o a commenti vari.
E' per questo che ritengo interessante riportare quanto stabilito nel giugno scorso dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che, in sostanza, ha ritenuto utilizzabili in giudizio le prove prelevate da Facebook. Facciamo come gli avvocati e distinguiamo tra fatto e diritto.
Questi i fatti: due coniugi si separano consensualmente e rinunciano a chiedere un mantenimento, essendo economicamente autonomi. Quando la donna perde il lavoro anche per problemi di salute, chiede al Tribunale la modifica delle condizioni della separazione consensuale per ottenere un mantenimento dal marito; quest'ultimo si oppone dicendo che la donna ormai convive con un altro uomo e che ciò le consente di mantenere un tenore di vita addirittura migliore rispetto a quello matrimoniale. Per dimostrare tutto questo, il marito scarica da Facebook alcune foto della (quasi ex) moglie con il nuovo compagno.
Apro una piccola parentesi: una nuova relazione del coniuge separato, anche se si trasforma in una convivenza di fatto, non causa di per sé la perdita del diritto al mantenimento poiché ciò che è realmente determinante è il fatto che il coniuge separato mantenga un tenore di vita uguale a quello matrimoniale.
Detto questo, passiamo al tema di diritto: che valore hanno le prove raccolte su Facebook? Secondo il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere è vero che i contenuti di FB sono protetti dalle impostazioni sulla privacy, ma è anche vero che le foto e le notizie pubblicate sul proprio profilo non sono coperte da quella segretezza che è invece propria delle chat o di altri programmi di messagistica: solo in questi ultimi casi, infatti, si può parlare di una corrispondenza privata protetta al massimo grado anche come diritto di rango costituzionale (art. 15), mentre le informazioni pubblicate su FB e accessibili a terzi, anche se non si tratta dei contatti nella lista delle amicizie, non possono godere di questa speciale tutela e sono quindi ammissibili come prove, liberamente valutabili dal giudice per la sua decisione, che nel caso specifico è stata quella di rigettare il ricorso presentato dalla donna.
E' chiaro che la pronuncia di un "piccolo" Tribunale non ha la forza di un precedente vincolante poiché non è assistita dal prestigio che può avere invece una decisione della Corte di Cassazione, che prima o poi sarà sicuramente chiamata ad occuparsi di questioni simili. Tuttavia questi primi orientamenti rendono la materia interessante e attuale, per cui resta fondamentale seguirne le evoluzioni sia per chi è appassionato di diritto, sia per chi vive queste situazioni e vuole avere qualche indicazione nel caso in cui volesse far valere le proprie ragioni.

martedì 9 luglio 2013

Libertà di stampa e diritti della persona: un equilibrio difficile



Il rapporto tra il diritto di cronaca e alcuni diritti della persona come la reputazione, l’onore, il decoro e la privacy rappresenta sicuramente uno dei punti più critici nelle democrazie moderne. Nessuna legislazione riesce a disciplinare in modo perfetto i limiti tra la libertà di stampa e il rispetto della persona, soprattutto perché i diritti di cronaca e critica da un lato e i diritti della personalità dall’altro sono tutti di rilevanza costituzionale.

E’ chiaro che qualsiasi notizia può influire negativamente sulla reputazione di un soggetto: riportare fatti di cronaca giudiziaria o anche di cronaca rosa può infatti costare l’isolamento sociale, la fine di rapporti amicali o familiari e molto altro. Il problema è dunque stabilire quando può prevalere la libertà di stampa e quando, invece, l’esercizio di tale libertà è ingiustificato e diventa lesivo dei diritti della persona.

La normativa italiana sul tema si muove tra poche regole e tanta elaborazione giurisprudenziale: non esiste una norma precisa che si occupa dell’esercizio del diritto di cronaca e critica, ma esiste (tanto nel codice civile quanto nel codice penale) una causa di giustificazione chiamata, appunto, “esercizio di un diritto”, e che esclude le conseguenze delle proprie azioni se ricorrono determinate condizioni. In altre parole, il diritto di cronaca e critica è correttamente esercitato (e non costituisce quindi una violazione del diritto alla reputazione, all’onore etc.) se ricorrono queste tre condizioni elaborate nel corso di decenni dalla Corte di Cassazione:

1. L’interesse pubblico alla notizia: il sacrificio dei diritti della personalità sopra citati è consentito in primo luogo se c’è una utilità sociale alla conoscenza della notizia, dato che il fine principale della stampa è portare a conoscenza del pubblico fatti che abbiano un interesse rilevante per collettività più o meno vaste. E’ quindi chiaro che il diritto all’integrità morale di un uomo qualunque è tutelato in maniera più rigorosa rispetto a quanto accade per un personaggio politico o comunque pubblico, essendo le azioni e le opinioni di quest’ultimo maggiormente rilevanti per la collettività;

2. La verità o almeno la veridicità della notizia: chiaramente dev’esserci una corrispondenza tra quanto accaduto e quanto narrato dalla stampa, almeno nel nucleo essenziale, senza alterazioni od omissioni che mutino il significato della notizia stessa;

3. La correttezza formale della notizia: questa caratteristica, detta anche “continenza”, consiste nella serena e obiettiva esposizione dei fatti. E’ necessario, quindi, l’utilizzo di espressioni e giudizi improntati alla lealtà, tenendo conto dello scopo informativo da conseguire: i Tribunali spesso bollano come eccessivi accostamenti suggestivi, insinuazioni, termini sproporzionati rispetto alla notizia e così via.


Come si può intuire questi tre criteri indicano una strada da seguire, ma la loro applicazione concreta varia da caso a caso; prendiamo ad esempio il criterio della continenza: quand’è che le considerazioni su un personaggio pubblico eccedono il diritto di critica e diventano soltanto un modo per offendere la sua integrità morale? E’ evidente che gli sforzi interpretativi dei giudici nei casi concreti non possono portare a regole valide per tutte le situazioni, così come è evidente che l’attuale classe politica difficilmente potrà cambiare in positivo la normativa vigente: come potremmo attenderci una discussione serena sul tema se i politici stessi sono i protagonisti in negativo di ciò che la stampa ogni giorno ci racconta?

giovedì 13 giugno 2013

Numero chiuso all'università, tra Costituzione e false leggende

Sulla questione del numero chiuso nelle università si sentono molte inesattezze, spesso accompagnate da argomentazioni giuridiche (di natura costituzionale, per lo più) sguarnite di ogni logica e prive di riscontri nelle norme della nostra Carta fondamentale. Sono sempre stato un sostenitore della necessità di consentire l’accesso agli studi universitari solo a chi davvero lo merita, anche prima di cominciare il mio percorso universitario, per cui vorrei dedicare questo articolo ad alcuni luoghi comuni su tale argomento.
Il primo luogo comune è quello secondo cui la Costituzione garantirebbe il diritto allo studio e l’accesso all’università a chiunque, per cui i test d’ingresso e (più in generale) i meccanismi di pre-selezione per l’iscrizione alle università sarebbero  incostituzionali. Ma le cose stanno davvero così? L’art. 33 della Costituzione è talmente cristallino che sarebbero superflui ulteriori commenti: il quinto comma sancisce che “E’ prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale”. E’ per questo che si fanno gli esami di maturità o altri esami alla fine di alcuni cicli scolastici, anche se – va detto – sono per lo più esami finali e tesi ad accertare se lo studente ha acquisito ciò che gli è stato insegnato fino a quel punto, non se è “portato” per il grado successivo, cosa che invece è considerata naturale in altri Paesi (specie di tradizione anglosassone) e che sta alla base proprio dei test d’ingresso per le facoltà a numero chiuso.
Ma c’è di più: l’art. 34 della nostra Carta distingue l’istruzione, “aperta a tutti”, dai “gradi più alti degli studi”. La scuola, secondo il primo comma di tale articolo, è aperta a tutti e l’istruzione inferiore, “impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Si parla dunque di “scuola”, non di “università”: anche l’articolo precedente differenzia tra scuole ed università o comunque altri “istituti di alta cultura” e le accademie.
Il terzo comma contiene un principio importantissimo: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Se anche “i gradi più alti degli studi” fossero aperti a tutti come dicono i contrari al numero chiuso, perché mai i nostri Padri costituenti avrebbero inserito questa precisazione? La ragione è facilmente intuibile: perché università, istituti di alta cultura e accademie non sono per tutti, ma per  i “capaci e meritevoli”. Se il numero chiuso fosse davvero incostituzionale, perché nella Costituzione c’è questo riferimento alle capacità e al merito? Per gioco, forse?
La costituzionalità del numero chiuso è stata peraltro sancita anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in base a tali princìpi: del resto immagino che i giudici della Corte vengano da tradizioni in cui i test d’ingresso sono una cosa normale. Da notare, peraltro, che la Corte si è pronunciata a seguito di un ricorso presentato anche da uno studente che da otto anni non dava esami universitari… tanto per capire chi è che bivacca nelle università italiane.
Ma al di là delle considerazioni giuridiche l’università aperta a tutti non risolve i problemi che i contrari al numero chiuso denunciano, facendo  leva (giustamente, va riconosciuto) su alcune storture tutte italiane. Ne cito un paio.
Le raccomandazioni: è vero che spesso i test d’ingresso alle università sono contestati da molti perché favorirebbero i “figli di”. Ma è anche vero che senza il numero chiuso i “figli di” entrerebbero lo stesso e potrebbero facilmente superare, grazie alle raccomandazioni, gli “anonimi”. Basterebbe favorirli agli esami scritti (con lo stesso meccanismo dei test d’ingresso) o fare domande “giuste” agli orali, ed ecco che il povero anonimo ha la strada di nuovo bloccata. Anzi: in un sistema di concorrenza selvaggia tra 1000 studenti (e non solo 200), è chiaro che i baroni avrebbero un interesse ancora maggiore a spingere i “protetti”.
La didattica: università intasate da studenti comportano sovraffollamento durante le lezioni, impossibilità di accedere ai laboratori informatici e alle strutture di vario genere, difficoltà nei rapporti con i professori (per i ricevimenti, per chiedere informazioni sul programma, per avere spiegazioni etc.) e molti altri inconvenienti che chiunque abbia frequentato un’università del genere conosce bene. Ebbene, il “figlio di” può contare sul genitore per ogni chiarimento, probabilmente non ha bisogno di strutture particolari perché le ha già dentro casa (si pensi alle attrezzature mediche, ai computer super-moderni e pieni di programmi che solo alcuni professionisti hanno); in più, dato che in un’università sovraffollata magari non è richiesta nemmeno la frequenza obbligatoria alle lezioni (proprio per diminuire il numero di studenti frequentanti), il “figlio di” potrà comodamente studiare a casa con l’aiuto di mamma o papà, mentre il nostro “anonimo” dovrà seguire ogni lezione in aule piene di confusione per capire qualcosa.
La preparazione: l’accesso libero comporta giocoforza un livellamento verso il basso della preparazione, con la conseguenza che escono troppi laureati senza un’adeguata conoscenza non solo della materia che hanno studiato, ma anche della lingua italiana e del mondo in generale. Lo dico anche contro i miei interessi, visto che ho studiato giurisprudenza (facoltà affollatissima) e ho sostenuto l’esame di Stato per avvocati come “anonimo”, senza saperne ancora l’esito. Potrei essere stato bocciato, forse per demerito o forse perché non “figlio di”, ma la mia opinione sul punto non cambia.
E poi, tanto per concludere: è forse un caso che quasi tutte le università italiane considerate migliori nelle classifiche internazionali sono quelle che adottano il numero chiuso?

venerdì 31 maggio 2013

Riforma del condominio: cosa cambia

Tra pochi giorni (il 18 giugno) entrerà in vigore la riforma di alcune norme sul condominio, varata sul finire dello scorso anno e finalizzata a rendere più armonica una materia in cui le poche regole fissate nel codice civile avevano dato luogo a interpretazioni spesso opposte da parte dei Tribunali.
Com'è noto, l'istituto del condominio è concepito soprattutto per dettare una disciplina sulle parti comuni di un edificio all'interno del quale ci sono più unità immobiliari, e la legge n. 220/2012 si è in primo luogo occupata di individuare meglio le parti comuni mediante un elenco che da un lato non è esaustivo, ma dall'altro mette un po' d'ordine in una casistica abbastanza caotica elaborata - come accennato - nei Tribunali.
La legge disciplina, inoltre, un fenomeno sempre più diffuso e cioè quello dei "condomini orizzontali", cioè di quelle realtà formate da più condomìni (complessi residenziali, "supercondomini" etc.) che a loro volta presentano delle parti comuni.
Ma per quanto riguarda più da vicino la vita di tutti i giorni del condòmino, va innanzitutto ricordata la nuova possibilità per quest'ultimo - già riconosciuta da alcuni Tribunali - di distaccarsi dall'impianto di riscaldamento (o condizionamento) condominiale, pur continunando a contribuire alle spese di manutenzione straordinaria, manutenzione e messa a norma.
Di particolare interesse è anche la nuova figura dell'amministratore, prevista obbligatoriamente quando i condòmini sono più di 8, mentre in precedenza ne bastavano 4. Una figura che sarà più qualificata rispetto al passato: l'amministratore dovrà frequentare specifici corsi di formazione (a meno che non abbia già un anno di esperienza), dovrà avere un'assicurazione professionale e - soprattutto - sarà tenuto a vari obblighi di informazione verso i condòmini in merito alla gesione finanziaria del condominio, tanto da dover tenere un conto corrente condominiale controllabile dai condòmini. Particolare curioso e "moderno" è che l'assemblea potrà chiedergli l'apertura e la gestione di un sito internet del condominio, sempre consultabile dai condòmini che avranno dunque la possibilità di visionare vari documenti riguardanti la gestione.
La riforma tenta quindi di tutelare maggiormente la trasparenza e l'efficienza dell'operato dell'amministratore, tanto da prevedere (per i condomìni con almeno 12 unità immobiliari) un consiglio di condominio formato da almeno 3 condòmini, con funzioni consultive e di controllo verso l'amministratore.
Novità importanti riguardano la modifica di alcuni quorum per la regolare costituzione dell'assemblea e per le sue deliberazioni, ispirate alla necessità di rendere più snella ed efficace l'attività dell'organo deliberativo.
Infine, una mezza rivoluzione che ha fatto e farà molto discutere è il divieto di inserire nel regolamento condominiale norme che impediscano di tenere animali da compagnia.
In conclusione la riforma, pur con le sue inevitabili carenze, dovrebbe contribuire a rendere più facile la vita di condominio, mediante un miglior funzionamento dell'assemblea, una maggior professionalità dell'amministrazione e una serie di norme a tutela dei condòmini. Vedremo nei prossimi anni se la nuova disciplina sarà all'altezza delle molte aspettative.

mercoledì 22 maggio 2013

Ecco perché la legge sullo "stalking" non funziona


Il dibattito sulla violenza verso le donne torna purtroppo ciclicamente, riproponendo ogni volta l’attenzione sul cosiddetto “stalking”; pertanto è bene analizzare alcuni punti critici della attuale legislazione italiana in materia, in gran parte dettata dal decreto-legge n. 11/2009. Tale atto normativo ha introdotto l’art. 612-bis nel codice penale sotto la denominazione “atti persecutori” e una serie di misure anche extrapenali, come l’ammonimento dello "stalker" da parte del Questore.
I primi problemi emergono già nella formulazione dell’art. 612-bis. Schematizzando, lo “stalker” è colui che con condotte ripetute minaccia o molesta taluno in modo tale da determinare uno di questi eventi: a) un perdurante e grave stato di ansia o di paura; b) un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; c) una alterazione delle abitudini di vita della vittima.
Prima domanda: perché il legislatore ha vincolato la punibilità dello stalker alle condizioni psicologiche della vittima, anziché punire direttamente le azioni del persecutore? In poche parole, lo stalking esiste solo se la vittima dimostra uno degli eventi sopra descritti, il che a volte può essere molto difficile. In mancanza di tale prova, i ripetuti atti dello stalker non seguiti da uno di quegli eventi possono essere declassati ai reati di minaccia o di molestia, che il nostro codice punisce in modo molto ma molto blando.
Ma poi perché lo stato di ansia o di paura deve essere “perdurante” e “grave”? La condotta dello stalker non è già grave in sé? E chi stabilisce la gravità dell’ansia, dato che si tratta di un concetto estremamente variabile in base al carattere della vittima? 
Oppure chi stabilisce se il timore per l’incolumità è “fondato”, dato che anche questo aspetto è molto vago? E ancora: la “relazione affettiva” che deve legare la vittima a una terza persona quando sussiste? Se, ad esempio, la vittima conosce una nuova persona dopo la fine della relazione con lo stalker, quand’è che la semplice conoscenza si trasforma in “relazione affettiva”?
A questo punto, è inutile soffermarsi sul terzo evento, quello dell’alterazione delle proprie abitudini di vita come conseguenza delle condotte dello stalker, poiché dovrebbe essere chiaro che anche questo è un concetto molto fumoso e difficile da dimostrare.
Il risultato è che la vittima deve sopportare un onere probatorio molto pesante: deve dimostrare gli atti di molestia o minaccia, deve dimostrare che sono reiterati e, inoltre, deve dimostrare che sono causalmente finalizzati a determinare l'evento prescritto dalla legge e, ovviamente, deve dimostrare l'esistenza dell'evento. La vittima che, ad esempio, è in un forte stato di soggezione psicologica ma non in uno stato di perdurante e grave ansia certificato (da uno psicologo ad esempio), che area di tutela può richiedere alla legge?
Considerate, poi, che la vittima di stalking raramente ha le conoscenze adeguate per "inquadrare" formalmente ciò che sta subendo di fronte alle Forze dell'ordine o alla Magistratura, per cui dovrà chiedere assistenza legale ad un avvocato per non rischiare di riportare i fatti in un modo troppo vago. E' solo grazie ad un avvocato che i fatti e le emozioni della vittima possono trovare una "traduzione" dal punto di vista legale e soddisfare tutti i requisiti richiesti da una norma così confusa; il rischio è quindi l'impossibilità di procedere verso lo stalker per la difficoltà di fornire prove adeguate.
Ciò ci porta ad un ulteriore problema: la normativa è ancor più lacunosa sugli aspetti procedurali. Il reato è infatti punibile, quando non ci sono aggravanti, su querela della vittima: vuol dire che lo stalker non può essere punito se non è la vittima a chiederlo espressamente, non basta la denuncia di un genitore o un amico. Un’assurdità, visto che molte volte la pressione psicologica esercitata dallo stalker spinge la vittima a non rivolgersi alle istituzioni. La mancanza di querela esclude peraltro l’arresto dello stalker, che in generale non è nemmeno obbligatorio; se ci aggiungiamo che non è consentito neppure il fermo dell’indiziato, il quadro è quasi completo.
Altro aspetto critico è che la pena massima (sempre in assenza di aggravanti) è la reclusione fino a quattro anni: basta un discreto avvocato per ottenere una pena inferiore ai tre anni, per esempio scegliendo un rito alternativo (rito abbreviato o patteggiamento), e lo stalker può chiedere l’affidamento ai servizi sociali evitando il carcere. Se oltre ad un rito alternativo, poi, si ottiene anche una sola attenuante (per esempio le attenuanti generiche: lo stalker ha collaborato nel processo, non ha precedenti, ha mostrato prima nel processo una seria propensione a non ripetere le sue condotte etc.), si può scendere sotto i due anni di reclusione e c’è addirittura la sospensione della pena. E molti centri antiviolenza osservano che uno stalker su tre torna a perseguitare la vittima perfino dopo la condanna... figuriamoci in caso di impunità.  
Ma qui rischiamo di andare in un altro campo, ben più esteso, che riguarda il malfunzionamento del sistema penale in genere… e quindi per il momento è meglio fermarsi, almeno per non infierire sulle vittime. 

martedì 14 maggio 2013

Quando il legislatore si esprime in Aramaico: cos'è "l'incidente probatorio"?


Nella cronaca giudiziaria i telegiornali e la carta stampata riportano spesso un’espressione, “incidente probatorio”, che sembra un incrocio tra la mitica supercazzola di Ugo Tognazzi e la lingua segreta del popolo elfico. Proveremo a spiegare cos'è in questo post, sperando di chiarire le idee a chi si domanda cosa diamine stia dicendo il giornalista di turno quando pronuncia l'oscura formula.

Dunque, il procedimento penale è diviso in varie parti, la prima delle quali è costituita dalle indagini preliminari. Tale fase serve a verificare se la notizia di reato (ad es. una denuncia) è fondata e se ci sono elementi sufficienti a sostenere un’accusa nel dibattimento, cioè nel processo vero e proprio, che ha invece lo scopo di scoprire se l'imputato di un reato è colpevole o innocente.
Nel dibattimento le parti (accusa e difesa soprattutto) esaminano i testimoni, presentano perizie e controbattono con altre perizie, valutano documenti e così via. Tutto ciò avviene nel contraddittorio, cosa che tendenzialmente manca nella fase delle indagini preliminari. Proprio per la mancanza di contraddittorio, di regola gli elementi raccolti durante le indagini non concorrono a formare il convincimento dei giudici sulla colpevolezza o sull'innocenza di chi è sospettato di aver commesso un reato; ciò è dimostrato anche dal fatto che nelle indagini c’è un Giudice per le indagini preliminari (il “gip”), mentre durante il dibattimento c’è un altro giudice, che ha la mente “sgombra” da ciò che è stato raccolto nella fase investigativa.
Tale struttura del procedimento penale garantisce il principio di immediatezza tra l’assunzione della prova e la decisione: i giudici del dibattimento devono convincersi sulla validità, la portata e il significato di una prova proprio grazie a ciò che emerge nel contraddittorio tra le parti e non su ciò che viene raccolto nelle indagini da Polizia, Carabinieri, Pubblico Ministero etc.
Tuttavia in molti casi non è possibile seguire tale struttura: se una persona sentita durante le indagini non può poi testimoniare in giudizio, ad esempio per una malattia, come si fa? E come si fa se bisogna analizzare una sostanza immediatamente, perché nell’attesa del dibattimento si può deteriorare? 
Ecco cos’è l’incidente probatorio: è un’udienza che si svolge nel contraddittorio delle parti solitamente durante le indagini preliminari, quindi prima del processo, e nella quale si assumono le prove nelle stesse forme prescritte per il dibattimento. Per cui un testimone, ad esempio, viene sentito con l’esame incrociato: nell’incidente probatorio, ciò che dice il testimone non concorre semplicemente a formare quegli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma diventa parte della decisione dei giudici sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. L’unica differenza col dibattimento è che l’udienza in questione si svolge senza pubblico, cioè in camera di consiglio.
A questo punto vi domanderete: ma perché questo strano nome, “incidente probatorio”? Perché ha la caratteristica di essere un’eccezione alla rigida regola della separazione tra indagini e dibattimento, quindi è un “incidente” nella struttura del procedimento penale, e in più ha valore “probatorio”, valore che normalmente manca agli atti delle indagini. Ecco svelato l'arcano!