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giovedì 26 maggio 2016

L'e-mail "Querela per diffamazione aggravata" è una bufala, anche pericolosa!

Ecco un buon motivo per conoscere qualche principio elementare di diritto: può evitarvi brutte figure e...un virus sul computer.
Da qualche giorno, infatti, sta arrivando a molti utenti un'e-mail firmata da uno Studio Legale che invia una "querela per diffamazione aggravata", specificando che il destinatario avrebbe posto in essere, su Facebook, una "attività lesiva e dichiaratamente diffamatoria del diritto all’immagine, al nome, alla dignità e alla riservatezza" della Signora Francesca De Rossi.
Tuttavia, una querela (atto del quale abbiamo già parlato in un altro articolo) NON viene in alcun modo inviata al presunto autore del reato, poiché è un atto che la vittima (o il suo avvocato) presentano all'Autorità Giudiziaria, eventualmente per il tramite delle Forze dell'Ordine.
La mail in questione, dunque, è una bufala ed è anche pericolosa, poiché  può costare addirittura un virus per il computer se si clicca sul pulsante "scarica documento".
Chiunque avesse ricevuto tale comunicazione non deve fare altro che cestinarla immediatamente.

N.B.: al contrario di molti siti internet, non ho riportato, nel mio articolo, il nome dello Studio Legale indicato nella mail perché lo Studio esiste per davvero e, oltre ad essere vittima della bufala, ha subìto anche una certa pubblicità negativa dalla vicenda e dal modo in cui è stata raccontata: preferisco, dunque, evitare ulteriori pregiudizi per i Colleghi.

venerdì 24 gennaio 2014

Esposti, denunce, querele e scritti anonimi: differenze e validità degli atti

Il cittadino che intende rivolgersi alla giustizia per tutelare i propri diritti dovrebbe sempre chiedere consigli ad un legale; tuttavia, specie quando si tratta di questioni di minore importanza, la tentazione di agire da soli è forte. Perciò, quando si prendono carta e penna è necessario sapere almeno la forma migliore per entrare in contatto con gli organi competenti, poiché spesso si fa confusione nel linguaggio comune tra esposto, denuncia e querela: ciascuno di questi atti, invece, ha presupposti diversi e a volte può anche sottintendere un "fine diverso", cioè una tutela più o meno ampia richiesta alla giustizia.
Cominciamo dall'atto forse più informale tra quelli citati, ovvero l'esposto. Lo scopo di tale atto è quello di risolvere bonariamente una lite fra privati con l'intervento delle Forze dell'Ordine: serve quindi a sollecitare la mediazione dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, che può convocare le parti per dirimere la contesa e redigere anche un verbale.
E' importante sapere che in genere si dovrebbe usare lo strumento dell'esposto solo per fatti che non costituiscono reato, come quelli che possono riguardare piccole questioni condominiali; infatti, se ciò che si espone configura un reato procedibile d'ufficio la P.S. deve informare l'Autorità Giudiziaria: sono reati di questo genere tutti quelli che non sono perseguibili a querela di parte, cioè per espressa volontà della persona offesa che chiede la punizione del colpevole. Converrà essere cauti, pertanto: non sempre chi espone un fatto vuole un intervento così duro come quello della giustizia penale, ma proprio per questo è bene consultare un legale per sapere le conseguenze di ciò che si sta per raccontare.
Si intuirà, da quanto detto, che la denuncia è l'atto con il quale il privato porta a conoscenza della giustizia un reato procedibile d'ufficio del quale ha notizia: salvo alcuni gravi reati, in genere la denuncia è facoltativa e non è vincolata a limiti di tempo.
La querela è invece un atto con il quale la vittima di un reato non procedibile d'ufficio non solo espone che è stato commesso un illecito penale, ma chiede anche la punizione del colpevole. Ecco perché spesso gli avvocati usano la locuzione "denuncia-querela": si denuncia il fatto (con la "notitia criminis", cioè notizia di reato), ma si chiede anche la punizione del suo presunto autore; se contestualmente ci sono più fatti, alcuni procedibili d'ufficio e altri solo dietro querela, l'atto presentato servirà a coprire tutte le fattispecie dal punto di vista procedurale. In termini non tecnici, si può dire che con la querela il destino del colpevole dipende dal querelante, che infatti entro certi limiti può anche ritirare la querela; invece con la denuncia la giustizia seguirà il proprio corso poiché il reato è procedibile d'ufficio. La querela è infatti anche una "condizione di procedibilità", cioè un requisito la cui mancanza determina l'impossibilità di punire il presunto autore del reato.
Trattandosi di un atto abbastanza complesso, è sempre meglio sporgere querela per mezzo di un legale, poiché spesso risulta difficile tradurre i fatti di cui si è stati vittima in ipotesi di reato: per esempio, la vittima può non sapere che alcuni fatti che sembrano secondari costituiscono invece delle aggravanti che rendono il reato procedibile anche d'ufficio. La querela può essere presentata al Pubblico Ministero o ad un ufficiale di Polizia Giudiziaria, anche oralmente; attenzione ai tempi, poiché per quasi tutti i reati la querela va presentata entro tre mesi da quando la vittima ha avuto notizia del reato.
Chiarite le differenze fra i tre atti, chiudo con un accenno ad una prassi purtroppo molto in voga nel nostro Paese, quella di inviare alle Autorità scritti anonimi sotto varie forme (esposti, denunce etc.) per segnalare presunti reati. 
Tendenzialmente gli scritti anonimi non devono essere presi in considerazione dalla giustizia penale: l'art. 333 c.p., in particolare, afferma che delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso. A maggior ragione ciò dovrebbe valere per la querela, non essendo individuata la vittima che chiede la punizione del colpevole.
Gli scritti anonimi, quindi, non impongono alcun obbligo di procedere, anche se vanno fatte due precisazioni.
La prima è che una denuncia o una querela anonime possono costare al loro autore (se individuato) una condanna per calunnia, se egli incolpa volontariamente un innocente o simula a carico di quest'ultimo le tracce di un reato.
La seconda è che la denuncia anonima, come detto, non obbliga l'Autorità Giudiziaria ad iscrivere la notizia di reato nell'apposito registro: malgrado ciò, dato che gli organi di giustizia e la Polizia Giudiziaria possono svolgere indagini di propria iniziativa quando vengono a conoscenza di fatti penalmente rilevanti (anche leggendo un'inchiesta giornalistica, per esempio), è chiaro che tali organi potranno avviare un'indagine autonomamente, specie se gli scritti anonimi sono ben circostanziati o provenienti (presumibilmente) da persone diverse.


lunedì 6 gennaio 2014

L'azione penale obbligatoria: cos'è e perché è importante per il cittadino "semplice"

L'articolo 112 della Costituzione stabilisce che "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale", ma da qualche anno torna ciclicamente l'ipotesi di modificare questa norma per trasformare l'azione penale da obbligatoria a discrezionale. Il tema può sembrare interessante solo al "circolo dei giuristi" e agli addetti ai lavori, ma forse da un punto di vista procedurale non c'è norma più importante per il cittadino che sia vittima di un reato. Vediamo perché.
L'obbligo dell'azione penale, tradotto in parole povere, significa che il magistrato (PM) venuto a conoscenza di una notizia di reato (es.: con una denuncia) deve compiere ogni atto di indagine utile per valutare la fondatezza di tale notizia, per stabilire cioè se la legge penale sia stata violata e chi debba eventualmente risponderne.
Se ritiene fondata la notizia, il Pubblico Ministero chiederà il rinvio a giudizio del presunto autore del reato, altrimenti opterà per la richiesta di archiviazione.
Questo meccanismo assicura soprattutto l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.): se l'azione penale fosse discrezionale, solo il cittadino "ricco" potrebbe permettersi un buon avvocato per convincere l'Autorità Giudiziaria a procedere. Mi spiego con un esempio: in Francia esiste un sistema "misto" per alcuni reati meno gravi, poiché il magistrato che riceve una denuncia può decidere di non procedere per ragioni di opportunità, di politica criminale e così via. Per "costringerlo" a proseguire e indagare, la vittima del reato deve formulare una querela con costituzione di parte civile, ma deve pure pagare una cauzione: è facile immaginare che un tale meccanismo può ingenerare discriminazioni.
Infatti, in un caso che qualche anno fa fece discutere molto, un cittadino francese si è rivolto alla Corte Europea dei diritti dell'uomo denunciando l'imposizione di una cauzione che non poteva permettersi, e la Corte ha riconosciuto che a quel cittadino era stato negato l'accesso alla giustizia (diritto fondamentale dell'uomo). Del resto quando sentiamo che negli USA un personaggio famoso viene scarcerato pagando una cauzione di milioni di dollari, la nostra coscienza ci suggerisce che lo stesso diritto non sarebbe stato assicurato ad una persona normale e non abbiente.
Altro esempio: una donna viene costantemente perseguitata dall'ex con appostamenti, minacce velate, comportamenti aggressivi e così via, ma per paura non si rivolge alla giustizia. E' giusto o sbagliato, secondo voi, garantire comunque la difesa della donna anche se il magistrato viene a conoscenza dell'accaduto da terzi e la donna, per sudditanza nei confronti dell'aggressore, non "insiste" nel pretendere la punizione dell'ex?
Qualcuno può obiettare: ma anche se il PM ha l'obbligo di fare le indagini non è detto che le faccia bene, per cui è possibile che chieda l'archiviazione e che la vittima resti priva di tutela. In realtà il codice di procedura penale, proprio per garantire pienamente il rispetto degli artt. 3 e 112, prevede un importante meccanismo: dato che il PM formula la richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari (GIP), quest'ultimo ha un forte potere di controllo sulla richiesta e può sia ordinare al PM di compiere nuove indagini, sia imporgli di formulare l'imputazione, cioè di promuovere l'accusa in giudizio riconoscendo la fondatezza della notizia di reato (art. 409 c.p.p.).

Come si vede, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale è determinante per garantire un eguale accesso alla giustizia, impedendo che la persecuzione dei reati sia dettata da scelte ideologiche, religiose, politiche o comunque da ragioni diverse dalla necessità di assicurare il rispetto della legge: perché, allora, la politica tenta da anni di mettere mano a tale principio? La risposta, senza nemmeno spremersi troppo le meningi, è fin troppo facile...

mercoledì 22 maggio 2013

Ecco perché la legge sullo "stalking" non funziona


Il dibattito sulla violenza verso le donne torna purtroppo ciclicamente, riproponendo ogni volta l’attenzione sul cosiddetto “stalking”; pertanto è bene analizzare alcuni punti critici della attuale legislazione italiana in materia, in gran parte dettata dal decreto-legge n. 11/2009. Tale atto normativo ha introdotto l’art. 612-bis nel codice penale sotto la denominazione “atti persecutori” e una serie di misure anche extrapenali, come l’ammonimento dello "stalker" da parte del Questore.
I primi problemi emergono già nella formulazione dell’art. 612-bis. Schematizzando, lo “stalker” è colui che con condotte ripetute minaccia o molesta taluno in modo tale da determinare uno di questi eventi: a) un perdurante e grave stato di ansia o di paura; b) un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; c) una alterazione delle abitudini di vita della vittima.
Prima domanda: perché il legislatore ha vincolato la punibilità dello stalker alle condizioni psicologiche della vittima, anziché punire direttamente le azioni del persecutore? In poche parole, lo stalking esiste solo se la vittima dimostra uno degli eventi sopra descritti, il che a volte può essere molto difficile. In mancanza di tale prova, i ripetuti atti dello stalker non seguiti da uno di quegli eventi possono essere declassati ai reati di minaccia o di molestia, che il nostro codice punisce in modo molto ma molto blando.
Ma poi perché lo stato di ansia o di paura deve essere “perdurante” e “grave”? La condotta dello stalker non è già grave in sé? E chi stabilisce la gravità dell’ansia, dato che si tratta di un concetto estremamente variabile in base al carattere della vittima? 
Oppure chi stabilisce se il timore per l’incolumità è “fondato”, dato che anche questo aspetto è molto vago? E ancora: la “relazione affettiva” che deve legare la vittima a una terza persona quando sussiste? Se, ad esempio, la vittima conosce una nuova persona dopo la fine della relazione con lo stalker, quand’è che la semplice conoscenza si trasforma in “relazione affettiva”?
A questo punto, è inutile soffermarsi sul terzo evento, quello dell’alterazione delle proprie abitudini di vita come conseguenza delle condotte dello stalker, poiché dovrebbe essere chiaro che anche questo è un concetto molto fumoso e difficile da dimostrare.
Il risultato è che la vittima deve sopportare un onere probatorio molto pesante: deve dimostrare gli atti di molestia o minaccia, deve dimostrare che sono reiterati e, inoltre, deve dimostrare che sono causalmente finalizzati a determinare l'evento prescritto dalla legge e, ovviamente, deve dimostrare l'esistenza dell'evento. La vittima che, ad esempio, è in un forte stato di soggezione psicologica ma non in uno stato di perdurante e grave ansia certificato (da uno psicologo ad esempio), che area di tutela può richiedere alla legge?
Considerate, poi, che la vittima di stalking raramente ha le conoscenze adeguate per "inquadrare" formalmente ciò che sta subendo di fronte alle Forze dell'ordine o alla Magistratura, per cui dovrà chiedere assistenza legale ad un avvocato per non rischiare di riportare i fatti in un modo troppo vago. E' solo grazie ad un avvocato che i fatti e le emozioni della vittima possono trovare una "traduzione" dal punto di vista legale e soddisfare tutti i requisiti richiesti da una norma così confusa; il rischio è quindi l'impossibilità di procedere verso lo stalker per la difficoltà di fornire prove adeguate.
Ciò ci porta ad un ulteriore problema: la normativa è ancor più lacunosa sugli aspetti procedurali. Il reato è infatti punibile, quando non ci sono aggravanti, su querela della vittima: vuol dire che lo stalker non può essere punito se non è la vittima a chiederlo espressamente, non basta la denuncia di un genitore o un amico. Un’assurdità, visto che molte volte la pressione psicologica esercitata dallo stalker spinge la vittima a non rivolgersi alle istituzioni. La mancanza di querela esclude peraltro l’arresto dello stalker, che in generale non è nemmeno obbligatorio; se ci aggiungiamo che non è consentito neppure il fermo dell’indiziato, il quadro è quasi completo.
Altro aspetto critico è che la pena massima (sempre in assenza di aggravanti) è la reclusione fino a quattro anni: basta un discreto avvocato per ottenere una pena inferiore ai tre anni, per esempio scegliendo un rito alternativo (rito abbreviato o patteggiamento), e lo stalker può chiedere l’affidamento ai servizi sociali evitando il carcere. Se oltre ad un rito alternativo, poi, si ottiene anche una sola attenuante (per esempio le attenuanti generiche: lo stalker ha collaborato nel processo, non ha precedenti, ha mostrato prima nel processo una seria propensione a non ripetere le sue condotte etc.), si può scendere sotto i due anni di reclusione e c’è addirittura la sospensione della pena. E molti centri antiviolenza osservano che uno stalker su tre torna a perseguitare la vittima perfino dopo la condanna... figuriamoci in caso di impunità.  
Ma qui rischiamo di andare in un altro campo, ben più esteso, che riguarda il malfunzionamento del sistema penale in genere… e quindi per il momento è meglio fermarsi, almeno per non infierire sulle vittime.