Sulla questione del numero chiuso nelle università si
sentono molte inesattezze, spesso accompagnate da argomentazioni giuridiche (di
natura costituzionale, per lo più) sguarnite di ogni logica e prive di
riscontri nelle norme della nostra Carta fondamentale. Sono sempre stato un
sostenitore della necessità di consentire l’accesso agli studi universitari
solo a chi davvero lo merita, anche prima di cominciare il mio percorso
universitario, per cui vorrei dedicare questo articolo ad alcuni luoghi comuni
su tale argomento.
Il primo luogo comune è quello secondo cui la Costituzione
garantirebbe il diritto allo studio e l’accesso all’università a chiunque, per
cui i test d’ingresso e (più in generale) i meccanismi di pre-selezione per l’iscrizione
alle università sarebbero incostituzionali.
Ma le cose stanno davvero così? L’art. 33 della Costituzione è talmente
cristallino che sarebbero superflui ulteriori commenti: il quinto comma
sancisce che “E’ prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e
gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio
professionale”. E’ per questo che si fanno gli esami di maturità o altri esami alla
fine di alcuni cicli scolastici, anche se – va detto – sono per lo più esami
finali e tesi ad accertare se lo studente ha acquisito ciò che gli è stato
insegnato fino a quel punto, non se è “portato” per il grado successivo, cosa
che invece è considerata naturale in altri Paesi (specie di tradizione
anglosassone) e che sta alla base proprio dei test d’ingresso per le facoltà a
numero chiuso.
Ma c’è di più: l’art. 34 della nostra Carta distingue l’istruzione,
“aperta a tutti”, dai “gradi più alti degli studi”. La scuola, secondo il primo
comma di tale articolo, è aperta a tutti e l’istruzione inferiore, “impartita
per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Si parla dunque di “scuola”,
non di “università”: anche l’articolo precedente differenzia tra scuole ed
università o comunque altri “istituti di alta cultura” e le accademie.
Il terzo comma contiene un principio importantissimo: “I
capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i
gradi più alti degli studi”. Se anche “i gradi più alti degli studi” fossero
aperti a tutti come dicono i contrari al numero chiuso, perché mai i nostri
Padri costituenti avrebbero inserito questa precisazione? La ragione è
facilmente intuibile: perché università, istituti di alta cultura e accademie
non sono per tutti, ma per i “capaci e
meritevoli”. Se il numero chiuso fosse davvero incostituzionale, perché nella
Costituzione c’è questo riferimento alle capacità e al merito? Per gioco,
forse?
La costituzionalità del numero chiuso è stata peraltro
sancita anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in base a tali
princìpi: del resto immagino che i giudici della Corte vengano da tradizioni in
cui i test d’ingresso sono una cosa normale. Da notare, peraltro, che la Corte
si è pronunciata a seguito di un ricorso presentato anche da uno studente che
da otto anni non dava esami universitari… tanto per capire chi è che bivacca
nelle università italiane.
Ma al di là delle considerazioni giuridiche l’università aperta
a tutti non risolve i problemi che i contrari al numero chiuso denunciano,
facendo leva (giustamente, va
riconosciuto) su alcune storture tutte italiane. Ne cito un paio.
Le raccomandazioni: è vero che spesso i test d’ingresso alle
università sono contestati da molti perché favorirebbero i “figli di”. Ma è
anche vero che senza il numero chiuso i “figli di” entrerebbero lo stesso e
potrebbero facilmente superare, grazie alle raccomandazioni, gli “anonimi”.
Basterebbe favorirli agli esami scritti (con lo stesso meccanismo dei test d’ingresso)
o fare domande “giuste” agli orali, ed ecco che il povero anonimo ha la strada
di nuovo bloccata. Anzi: in un sistema di concorrenza selvaggia tra 1000
studenti (e non solo 200), è chiaro che i baroni avrebbero un interesse ancora
maggiore a spingere i “protetti”.
La didattica: università intasate da studenti comportano
sovraffollamento durante le lezioni, impossibilità di accedere ai laboratori
informatici e alle strutture di vario genere, difficoltà nei rapporti con i
professori (per i ricevimenti, per chiedere informazioni sul programma, per
avere spiegazioni etc.) e molti altri inconvenienti che chiunque abbia
frequentato un’università del genere conosce bene. Ebbene, il “figlio di” può
contare sul genitore per ogni chiarimento, probabilmente non ha bisogno di
strutture particolari perché le ha già dentro casa (si pensi alle attrezzature
mediche, ai computer super-moderni e pieni di programmi che solo alcuni
professionisti hanno); in più, dato che in un’università sovraffollata magari
non è richiesta nemmeno la frequenza obbligatoria alle lezioni (proprio per
diminuire il numero di studenti frequentanti), il “figlio di” potrà comodamente
studiare a casa con l’aiuto di mamma o papà, mentre il nostro “anonimo” dovrà
seguire ogni lezione in aule piene di confusione per capire qualcosa.
La preparazione: l’accesso libero comporta giocoforza un
livellamento verso il basso della preparazione, con la conseguenza che escono
troppi laureati senza un’adeguata conoscenza non solo della materia che hanno
studiato, ma anche della lingua italiana e del mondo in generale. Lo dico anche
contro i miei interessi, visto che ho studiato giurisprudenza (facoltà
affollatissima) e ho sostenuto l’esame di Stato per avvocati come “anonimo”,
senza saperne ancora l’esito. Potrei essere stato bocciato, forse per demerito
o forse perché non “figlio di”, ma la mia opinione sul punto non cambia.
E poi, tanto per concludere: è forse un caso che quasi tutte
le università italiane considerate migliori nelle classifiche internazionali
sono quelle che adottano il numero chiuso?
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