giovedì 24 ottobre 2013

Danni da cattiva manutenzione delle strade: come agire

Uno degli incidenti più comuni che possano capitare nel corso della vita è, purtroppo, quello di inciampare su una strada sconnessa o di danneggiare la propria auto su una buca non visibile. La casistica legata a episodi di cattiva manutenzione delle strade è prevedibilmente sterminata, con la conseguenza che per ottenere una tutela sotto forma di risarcimento bisogna essere ben documentati e preparati. 
Cerchiamo di fare luce sull'argomento e cominciamo col dire che le strade che noi chiamiamo "pubbliche" possono appartenere o essere gestite dal Comune, dalla Provincia o da altri Enti pubblici ed è per questo che il danneggiato dovrà agire in giudizio contro uno di questi enti, a seconda della tipologia della strada.
Il problema principale per chi agisce (o meglio, per il suo difensore) è tuttavia quello di inquadrare correttamente ciò che è accaduto in termini di diritto, perché sul tema dei danni da insidie stradali si registrava fino a qualche tempo fa una certa oscillazione di vedute: negli ultimi anni va segnalato un progressivo consolidamento di tali orientamenti, grazie a recenti sentenze della Cassazione (per approfondire, ne cito alcune: n. 6903/2012, n. 2562/2012)
Senza scendere in tecnicismi inutili (lo scopo di questo blog è spiegare il diritto a chi non lo conosce, non agli avvocati), si può dire che il danneggiato deve sostenere un onere della prova relativamente "leggero" in due ipotesi:
1.Quando l'Ente gestore aveva la possibilità concreta di esercitare la custodia del tratto di strada, possibilità da valutarsi alla stregua di criteri quali l'estensione della strada, la posizione, le dotazioni e i sistemi di assistenza che la connotano;
2. Quando sia stata proprio l'attività compiuta dalla Pubblica Amministrazione a rendere pericolosa la strada medesima.
Facciamo un esempio per ciascuna ipotesi: la prima ricorre spesso quando il danno si è verificato su una strada comunale del centro abitato, che è continuamente sotto gli occhi del Comune per così dire; il secondo caso può verificarsi quando la strada è dissestata per lavori compiuti male o mal segnalati.
In questi casi l'onere probatorio è più snello perché secondo la Cassazione può applicarsi l'art. 2051 del codice civile, che considera responsabile il soggetto che ha la custodia di un bene per i danni causati dal bene stesso: pertanto il danneggiato dovrà provare solo il fatto, il danno e il nesso di causalità tra lo stato della strada e l'evento, mentre il custode sarà ritenuto responsabile in via presuntiva a meno che non dimostri che il danno sia attribuibile al caso fortuito (ad es.: il manto stradale era scivoloso perché poco prima un camion aveva perso grosse quantità di materiale oleoso, e quindi l'Ente custode non sarebbe potuto intervenire in alcun modo per evitare la caduta del danneggiato).
Fuori da questi casi, invece, il danneggiato potrà invocare solo l'art. 2043 c.c. e quindi dovrà provare non solo il fatto, il danno e il nesso di causalità, ma anche il dolo o la colpa del danneggiante. Quest'ultimo elemento psicologico rappresenta spesso un requisito difficile da provare: ad esempio si dovrà dimostrare che l'Ente proprietario fosse a conoscenza dello stato di dissesto, che non abbia provveduto per negligenza o che abbia causato lo stato di dissesto per imperizia; in alcuni casi è stato richiesto al danneggiato di provare anche il carattere insidioso del pericolo, oppure l'invisibilità ed imprevedibilità della fonte di danno (es.: una buca o un avvallamento).
Come si vede il sistema per tutelare i propri diritti è abbastanza complesso, per cui sarà necessario documentare le proprie pretese in tutti i modi possibili (fotografie, relazioni delle Forze di polizia, referti medici, testimonianze etc.) per avere maggiori possibilità di azione; allo stesso modo, la difficoltà della materia richiede da subito l'ausilio di un legale per inquadrare nel modo giusto l'accaduto e non ricorrere ad una tutela fai-da-te.
Per completezza bisogna ricordare anche quanto stabilito dalla sentenza n. 1310/2012 della Corte di Cassazione: se l'evento dannoso è stato causato anche da un comportamento colposo del danneggiato (ad es.: distrazione, elevata velocità etc.), costui potrà incorrere in un concorso di colpa e quindi beneficiare di un risarcimento minore, mentre non avrà alcun diritto al risarcimento se è stato il suo comportamento a recidere del tutto il nesso di causalità tra la fonte del danno e il danno stesso.

lunedì 21 ottobre 2013

Amnistia e indulto unica via? Ecco le alternative.

L'intollerabile situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, che ospitano circa 65 mila detenuti a fronte di una capienza di quasi 48 mila posti, è un argomento che in queste settimane è tornato alle cronache sotto forma di emergenza; tuttavia, non ci sarebbe nessuna emergenza se già sette anni fa la politica si fosse presa la responsabilità di fare quelle "riforme strutturali" di cui quotidianamente ci riempie le orecchie.
E infatti siamo di nuovo al punto di partenza rispetto all'ultima "emergenza carceri": alla vigilia dell'indulto del 2006 i detenuti in carcere erano 61.400, il che vuol dire che se con quel provvedimento ne uscirono 26 mila, nel giro di sette anni sono rientrati nelle patrie galere 30 mila detenuti (tutti i dati vengono dal Ministro della Giustizia Cancellieri).
Ormai i cittadini, anche sulla scorta di ciò, sanno bene che i provvedimenti di amnistia e indulto servono a poco e rischiano anzi di peggiorare lo status quo (come in effetti è accaduto). Quello che non sanno, perché i politici non lo dicono mai pensando solo alla via più breve per avere meno responsabilità e tamponare le falle in attesa di nuove elezioni, è che dal mondo del diritto vengono avanzate spesso molte proposte per risolvere questa situazione da Paese incivile, a costo zero per lo Stato e in modo stabile. Eccone alcune.
1. La prima intelligente proposta è sostituire le pene detentive con sanzioni interdittive. Cosa vuol dire? Che chi ha commesso certi reati, anziché andare in carcere, viene interdetto per un periodo di tempo dall'esercizio di una professione. Sei un commercialista che ha truccato il bilancio per una società? Per cinque anni non puoi esercitare. Sei un professore che ha truccato un concorso? Idem.
2. Seconda proposta: depenalizzare. Se qualcuno storce il naso, non mi riferisco ai reati "gravi", ci mancherebbe, ma a quelle fattispecie che pur non mandando in carcere nessuno affollano i tribunali di cause: il risultato è che i processi per i reati più gravi vengono rallentati e i detenuti in attesa di giudizio restano in carcere per più tempo. Esempio: Tizio dà dello "str...o" a Caio. Reato di ingiuria: Giudici di pace intasati per roba del genere che (ci crediate o no) arriva fino alla Cassazione, che invece di occuparsi di cose serie deve stabilire se l'insulto di cui sopra è tale da suscitare una lesione dell'onore così grande da offendere il bene giuridico protetto, se il "vaffa" è reato o meno etc. Altro esempio, l'imbrattamento dei muri: cosa gravissima, l'ABC della delinquenza si potrebbe dire. Bene: invece delle sanzioni penali, che comunque sono talmente esigue da non mandare in carcere nessuno per questo reato, perché non costringere l'imbrattatore a svolgere lavori utili per la collettività per qualche anno con sanzioni amministrative e non penali? Fatelo svegliare per due anni alle cinque per ripulire i muri della città, vedrete come gli passerà la voglia di delinquere. Noi invece preferiamo fargli un processo penale, magari per danneggiamento, per poi dirgli che lo condanniamo a un anno e mezzo, ma per scherzo: sei incensurato, la pena è sospesa. Va' e imbratta di nuovo: intanto abbiamo perso mesi interi e i carcerati in attesa di giudizio possono aspettare ancora.
3. Rivedere queste tre leggi: Bossi-Fini, Fini-Giovanardi ed ex-Cirielli. La prima ha introdotto il reato di immigrazione clandestina che molti vorrebbero abolire. In realtà, al di là di questo aspetto c'è sempre il solito problema: quando sbarcano 200 immigrati, il Tribunale competente deve seguire 200 nuovi indagati, per cui tutto rallenta e nessuno si occuperà dei detenuti in attesa di giudizio. Se proprio non si vuole abolire questo reato, perché non far scontare la pena ai clandestini nel loro paese d'origine anche quando commettono reati di altro genere oltre all'immigrazione clandestina? La seconda legge manda in carcere chi fa uso personale di droghe sulla base di una presunzione: se superi una certa quantità, presumo che tu sia uno spacciatore. Ora, sul sito del Ministero della Giustizia (dati giugno 2013) si legge che sono 26 mila i detenuti per droga, cioè più di un terzo della popolazione carceraria. Sono più dei detenuti per delitti contro la persona (omicidio, lesioni, violenza sessuale etc.): vi sembra un dato coerente con la situazione sociale? Ecco perchè andrebbe rivista la Fini-Giovanardi: perché non distingue tra consumatore e spacciatore, e fabbrica solo detenuti. La ex-Cirielli è quella che fa meno rumore, ma è altrettanto sciocca: tra le altre cose, ha reso i processi e la detenzione molto duri per i recidivi, con effetti paradossali. Nel 2009, a Napoli, un tizio è stato condannato a tre anni di reclusione per aver rubato un pacco di wafer che costava 1,29 euro, proprio perché non poteva beneficiare di alcune attenuanti (es.: danno di lieve entità) in quanto recidivo. E anche qui torna la domanda: ma perché un Tribunale dovrebbe occuparsi di un furto da 1,29 euro anziché di violenze sulle donne, omicidi stradali, pedopornografia etc? Non dico che queste leggi andrebbero abolite in blocco, ma sarebbe lecito almeno rivedere quegli aspetti che rallentano il sistema e fabbricano detenuti in contrasto con il senso comune.
4. Rivedere la disciplina sulla carcerazione preventiva. Circa 25 mila detenuti sono ancora in attesa di una sentenza definitiva e, quindi, secondo la Costituzione sono innocenti. In realtà questi dati andrebbero spiegati: 10 mila sono stati almeno giudicati in primo grado o anche in appello, ma 15 mila persone in carcere in attesa di una prima pronuncia sono comunque troppe. Bisognerebbe quindi sostituire la detenzione preventiva in carcere con quella domiciliare, almeno per i reati minori: all'estero hanno sperimentato il braccialetto elettronico per favorire i controlli, da noi è stato un fiasco peraltro molto costoso.
Per concludere, un ultimo dato: non è vero che l'Italia ha troppi detenuti, perché sono circa 107 per ogni 100 mila abitanti contro una media europea di 127,7. Abbiamo troppi politici incapaci, questo sì.

mercoledì 16 ottobre 2013

"Airport Security" contro la giustizia italiana: scusate il paragone

L’altro giorno guardavo un programma televisivo, “Airport Security”, che mostra cosa avviene alle dogane in Australia. Ho assistito a questa scena: un tizio prova ad entrare nel Paese con uno strano passaporto; l’ispettore doganale si insospettisce e dice di voler far analizzare il documento da un perito che viene chiamato telefonicamente e dopo mezz’ora si presenta, compie le sue indagini e conclude che il passaporto è falso. Al passeggero viene detto che entro un’ora verrà condotto in un centro di permanenza temporanea e rispedito al suo paese, e che il suo passaporto è sequestrato perché illegale. Nessun ricorso, nessun avvocato, nessuna scusante, nessuna scappatoia per perdere tempo: hai il passaporto falso? Torni a casa. Una cosa così importante, che può cambiare per sempre la vita di una persona pronta ad entrare in un altro Paese, decisa nel giro di qualche ora.
Allora mi è venuto in mente cosa succede in Italia quando si deve fare una perizia per cose molto meno importanti, per esempio stabilire dove stanno i confini tra due proprietà, e mi sono domandato: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad essere surreali? Non voglio mettere a confronto due contesti profondamente diversi tra loro e quindi non ho alcuna pretesa “scientifica”; l’intenzione è solo quella di evidenziare le diverse concezioni di giustizia che stanno alla base dei due sistemi, quello australiano e quello italiano, per riflettere sulla macchinosità del nostro.
Prendiamo il processo civile italiano: di solito il giudice dispone una perizia (“consulenza tecnica d’ufficio”, CTU) quando già le parti sono in causa e hanno depositato una serie di atti e memorie per i quali la legge prevede tempi abbastanza lunghi: poniamo caso di trovarci, nella migliore delle ipotesi, a circa un anno dall’inizio del processo.
Se è necessaria la perizia, ecco cosa accade: il giudice nomina il consulente, ma deve fissare una nuova udienza solo per farlo giurare e dirgli cosa deve fare. Voi direte: ma se agli Australiani basta una telefonata, perché noi non contattiamo il perito via p.e.c., ci facciamo inviare una sua dichiarazione giurata sempre via p.e.c., e comunichiamo alle parti la nomina e l’accettazione ancora via p.e.c., impiegando in tutto solo pochi giorni?
La risposta soffia nel vento, ma ad ogni modo da noi non si può fare: bisogna tenere un’udienza apposita, che naturalmente viene fissata a mesi di distanza perché ogni giudice ha centinaia, spesso migliaia di cause da trattare e udienze da tenere.
Si arriva all’udienza e il perito giura, poi fissa il “giorno di inizio delle operazioni” e passa qualche mese prima che depositi la perizia, alla quale (ci mancherebbe) le parti possono rispondere nominando propri esperti che dialogheranno col consulente del giudice scambiandosi perizie di parte, note critiche, precisazioni, integrazioni... il tutto va avanti per qualche mesetto, a volte anche per anni: spesso è necessario persino un “supplemento” alla perizia.
Dopo tutta questa tiritera, chiusa la fase di assunzione delle prove, le parti “sintetizzano” ciò che è successo in ulteriori memorie prima che il giudice decida: se tutto va bene, ci vogliono 5-6 mesi ancora per arrivare alla decisione (ma sono quasi sempre molti di più).
Una volta pubblicata la sentenza sapremo finalmente se la perizia era giusta e a chi ha dato ragione, sperando che nessuno impugni la sentenza stessa proponendo appello e poi, eventualmente, ricorso in Cassazione.
In conclusione, se lo scopo di una perizia è quello di stabilire come stanno i fatti per poter aiutare qualcuno a decidere, in Australia quello scopo viene raggiunto in qualche ora; in Italia, dopo qualche anno.

Ripeto: sono due contesti del tutto diversi e non “mescolabili”, ma almeno il linea di principio vi giro la domanda: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad essere surreali?