L’altro
giorno guardavo un programma televisivo, “Airport Security”, che mostra cosa
avviene alle dogane in Australia. Ho assistito a questa scena: un tizio prova
ad entrare nel Paese con uno strano passaporto; l’ispettore doganale si
insospettisce e dice di voler far analizzare il documento da un perito che
viene chiamato telefonicamente e dopo mezz’ora si presenta, compie le sue
indagini e conclude che il passaporto è falso. Al passeggero viene detto che
entro un’ora verrà condotto in un centro di permanenza temporanea e rispedito
al suo paese, e che il suo passaporto è sequestrato perché illegale. Nessun
ricorso, nessun avvocato, nessuna scusante, nessuna scappatoia per perdere
tempo: hai il passaporto falso? Torni a casa. Una cosa così importante, che può
cambiare per sempre la vita di una persona pronta ad entrare in un altro Paese,
decisa nel giro di qualche ora.
Allora
mi è venuto in mente cosa succede in Italia quando si deve fare una perizia per
cose molto meno importanti, per esempio stabilire dove stanno i confini tra due
proprietà, e mi sono domandato: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad
essere surreali? Non voglio mettere a confronto due contesti profondamente
diversi tra loro e quindi non ho alcuna pretesa “scientifica”; l’intenzione è
solo quella di evidenziare le diverse concezioni di giustizia che stanno alla
base dei due sistemi, quello australiano e quello italiano, per riflettere sulla
macchinosità del nostro.
Prendiamo
il processo civile italiano: di solito il giudice dispone una perizia
(“consulenza tecnica d’ufficio”, CTU) quando già le parti sono in causa e hanno
depositato una serie di atti e memorie per i quali la legge prevede tempi
abbastanza lunghi: poniamo caso di trovarci, nella migliore delle ipotesi, a circa
un anno dall’inizio del processo.
Se
è necessaria la perizia, ecco cosa accade: il giudice nomina il consulente, ma deve
fissare una nuova udienza solo per farlo giurare e dirgli cosa deve fare. Voi
direte: ma se agli Australiani basta una telefonata, perché noi non contattiamo
il perito via p.e.c., ci facciamo inviare una sua dichiarazione giurata sempre
via p.e.c., e comunichiamo alle parti la nomina e l’accettazione ancora via
p.e.c., impiegando in tutto solo pochi giorni?
La
risposta soffia nel vento, ma ad ogni modo da noi non si può fare: bisogna
tenere un’udienza apposita, che naturalmente viene fissata a mesi di distanza
perché ogni giudice ha centinaia, spesso migliaia di cause da trattare e
udienze da tenere.
Si
arriva all’udienza e il perito giura, poi fissa il “giorno di inizio delle
operazioni” e passa qualche mese prima che depositi la perizia, alla quale (ci
mancherebbe) le parti possono rispondere nominando propri esperti che
dialogheranno col consulente del giudice scambiandosi perizie di parte, note
critiche, precisazioni, integrazioni... il tutto va avanti per qualche mesetto,
a volte anche per anni: spesso è necessario persino un “supplemento” alla
perizia.
Dopo
tutta questa tiritera, chiusa la fase di assunzione delle prove, le parti “sintetizzano”
ciò che è successo in ulteriori memorie prima che il giudice decida: se tutto
va bene, ci vogliono 5-6 mesi ancora per arrivare alla decisione (ma sono quasi
sempre molti di più).
Una
volta pubblicata la sentenza sapremo finalmente se la perizia era giusta e a
chi ha dato ragione, sperando che nessuno impugni la sentenza stessa proponendo
appello e poi, eventualmente, ricorso in Cassazione.
In
conclusione, se lo scopo di una perizia è quello di stabilire come stanno i
fatti per poter aiutare qualcuno a decidere, in Australia quello scopo viene
raggiunto in qualche ora; in Italia, dopo qualche anno.
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