mercoledì 16 ottobre 2013

"Airport Security" contro la giustizia italiana: scusate il paragone

L’altro giorno guardavo un programma televisivo, “Airport Security”, che mostra cosa avviene alle dogane in Australia. Ho assistito a questa scena: un tizio prova ad entrare nel Paese con uno strano passaporto; l’ispettore doganale si insospettisce e dice di voler far analizzare il documento da un perito che viene chiamato telefonicamente e dopo mezz’ora si presenta, compie le sue indagini e conclude che il passaporto è falso. Al passeggero viene detto che entro un’ora verrà condotto in un centro di permanenza temporanea e rispedito al suo paese, e che il suo passaporto è sequestrato perché illegale. Nessun ricorso, nessun avvocato, nessuna scusante, nessuna scappatoia per perdere tempo: hai il passaporto falso? Torni a casa. Una cosa così importante, che può cambiare per sempre la vita di una persona pronta ad entrare in un altro Paese, decisa nel giro di qualche ora.
Allora mi è venuto in mente cosa succede in Italia quando si deve fare una perizia per cose molto meno importanti, per esempio stabilire dove stanno i confini tra due proprietà, e mi sono domandato: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad essere surreali? Non voglio mettere a confronto due contesti profondamente diversi tra loro e quindi non ho alcuna pretesa “scientifica”; l’intenzione è solo quella di evidenziare le diverse concezioni di giustizia che stanno alla base dei due sistemi, quello australiano e quello italiano, per riflettere sulla macchinosità del nostro.
Prendiamo il processo civile italiano: di solito il giudice dispone una perizia (“consulenza tecnica d’ufficio”, CTU) quando già le parti sono in causa e hanno depositato una serie di atti e memorie per i quali la legge prevede tempi abbastanza lunghi: poniamo caso di trovarci, nella migliore delle ipotesi, a circa un anno dall’inizio del processo.
Se è necessaria la perizia, ecco cosa accade: il giudice nomina il consulente, ma deve fissare una nuova udienza solo per farlo giurare e dirgli cosa deve fare. Voi direte: ma se agli Australiani basta una telefonata, perché noi non contattiamo il perito via p.e.c., ci facciamo inviare una sua dichiarazione giurata sempre via p.e.c., e comunichiamo alle parti la nomina e l’accettazione ancora via p.e.c., impiegando in tutto solo pochi giorni?
La risposta soffia nel vento, ma ad ogni modo da noi non si può fare: bisogna tenere un’udienza apposita, che naturalmente viene fissata a mesi di distanza perché ogni giudice ha centinaia, spesso migliaia di cause da trattare e udienze da tenere.
Si arriva all’udienza e il perito giura, poi fissa il “giorno di inizio delle operazioni” e passa qualche mese prima che depositi la perizia, alla quale (ci mancherebbe) le parti possono rispondere nominando propri esperti che dialogheranno col consulente del giudice scambiandosi perizie di parte, note critiche, precisazioni, integrazioni... il tutto va avanti per qualche mesetto, a volte anche per anni: spesso è necessario persino un “supplemento” alla perizia.
Dopo tutta questa tiritera, chiusa la fase di assunzione delle prove, le parti “sintetizzano” ciò che è successo in ulteriori memorie prima che il giudice decida: se tutto va bene, ci vogliono 5-6 mesi ancora per arrivare alla decisione (ma sono quasi sempre molti di più).
Una volta pubblicata la sentenza sapremo finalmente se la perizia era giusta e a chi ha dato ragione, sperando che nessuno impugni la sentenza stessa proponendo appello e poi, eventualmente, ricorso in Cassazione.
In conclusione, se lo scopo di una perizia è quello di stabilire come stanno i fatti per poter aiutare qualcuno a decidere, in Australia quello scopo viene raggiunto in qualche ora; in Italia, dopo qualche anno.

Ripeto: sono due contesti del tutto diversi e non “mescolabili”, ma almeno il linea di principio vi giro la domanda: sono pazzi gli Australiani o siamo noi ad essere surreali?

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