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venerdì 23 maggio 2014

Residenza, domicilio e dimora: differenze ed esempi pratici

A volte una breve chiacchierata durante un'interminabile fila può essere utile per avere un'idea e scrivere un nuovo post. Stamattina, infatti, mi è capitato di scambiare qualche parola con una signora che, per chiedere un certificato, faceva una certa confusione tra residenza, dimora e domicilio: tre termini che per la legge hanno significati diversi anche se, nel gergo colloquiale, spesso vengono utilizzati indifferentemente. Cerchiamo di capirci di più, facendo esempi tratti dalla vita di tutti i giorni.
L'articolo 43 del codice civile specifica che il domicilio di una persona è il luogo in cui essa "ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi"; la residenza, invece, "è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale". Per cui, anche se non esiste una definizione apposita, la dimora è il luogo in cui si vive e può essere anche transitoria: pensiamo ad una persona costretta a trasferirsi temporaneamente in albergo.
In sostanza la differenza sta nel diverso utilizzo della residenza e del domicilio: mentre la prima è il luogo in cui normalmente si abita, il domicilio è più specifico e riguarda più che altro la vita professionale. Pertanto, un medico potrebbe avere la sua "dimora abituale" a Roma, vivendo lì con la sua famiglia, ma avere il proprio studio a Latina e quindi avere lì il suo domicilio.
Altra differenza importante è che in alcuni casi, cioè per specifici affari, si può "eleggere domicilio speciale": ciò accade ad esempio quando si inizia un processo e si elegge domicilio presso lo studio del proprio legale per ricevere lì tutte le comunicazioni. Per cui il medico dell'esempio di cui sopra potrebbe avere non solo il domicilio generale del suo studio, ma anche quello eletto presso il suo avvocato di Viterbo, solo ai fini del processo ovviamente.
Poiché, invece, la residenza è un dato piuttosto "stabile", è chiaro che non si può "eleggere" la residenza ma "fissarla", come si dice nel linguaggio giuridico. 
Quindi, se si cambia dimora (cioè luogo in cui si abita), bisognerà distinguere tra caso e caso: se lo spostamento è duraturo (poiché ad esempio ci si trasferisce in un'altra città, oppure si lascia la famiglia d'origine dopo il matrimonio), sarà meglio chiedere il cambio di residenza. Ciò perché molte volte la legge dà per scontato che una persona ha ricevuto un atto (es.: una raccomandata o un atto giudiziario) avendo una stabile dimora in un luogo; oppure perché molti effetti di legge (es.: assegnazione del medico di famiglia, della circoscrizione elettorale etc.) dipendono proprio dalla residenza.
Riepilogando: il nostro medico avrà la residenza a Roma, il domicilio generale a Latina, il domicilio eletto a Viterbo...e magari la dimora a Capri se affitta una casa per un mese e se ne va in vacanza lì, beato lui!

venerdì 24 gennaio 2014

Esposti, denunce, querele e scritti anonimi: differenze e validità degli atti

Il cittadino che intende rivolgersi alla giustizia per tutelare i propri diritti dovrebbe sempre chiedere consigli ad un legale; tuttavia, specie quando si tratta di questioni di minore importanza, la tentazione di agire da soli è forte. Perciò, quando si prendono carta e penna è necessario sapere almeno la forma migliore per entrare in contatto con gli organi competenti, poiché spesso si fa confusione nel linguaggio comune tra esposto, denuncia e querela: ciascuno di questi atti, invece, ha presupposti diversi e a volte può anche sottintendere un "fine diverso", cioè una tutela più o meno ampia richiesta alla giustizia.
Cominciamo dall'atto forse più informale tra quelli citati, ovvero l'esposto. Lo scopo di tale atto è quello di risolvere bonariamente una lite fra privati con l'intervento delle Forze dell'Ordine: serve quindi a sollecitare la mediazione dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, che può convocare le parti per dirimere la contesa e redigere anche un verbale.
E' importante sapere che in genere si dovrebbe usare lo strumento dell'esposto solo per fatti che non costituiscono reato, come quelli che possono riguardare piccole questioni condominiali; infatti, se ciò che si espone configura un reato procedibile d'ufficio la P.S. deve informare l'Autorità Giudiziaria: sono reati di questo genere tutti quelli che non sono perseguibili a querela di parte, cioè per espressa volontà della persona offesa che chiede la punizione del colpevole. Converrà essere cauti, pertanto: non sempre chi espone un fatto vuole un intervento così duro come quello della giustizia penale, ma proprio per questo è bene consultare un legale per sapere le conseguenze di ciò che si sta per raccontare.
Si intuirà, da quanto detto, che la denuncia è l'atto con il quale il privato porta a conoscenza della giustizia un reato procedibile d'ufficio del quale ha notizia: salvo alcuni gravi reati, in genere la denuncia è facoltativa e non è vincolata a limiti di tempo.
La querela è invece un atto con il quale la vittima di un reato non procedibile d'ufficio non solo espone che è stato commesso un illecito penale, ma chiede anche la punizione del colpevole. Ecco perché spesso gli avvocati usano la locuzione "denuncia-querela": si denuncia il fatto (con la "notitia criminis", cioè notizia di reato), ma si chiede anche la punizione del suo presunto autore; se contestualmente ci sono più fatti, alcuni procedibili d'ufficio e altri solo dietro querela, l'atto presentato servirà a coprire tutte le fattispecie dal punto di vista procedurale. In termini non tecnici, si può dire che con la querela il destino del colpevole dipende dal querelante, che infatti entro certi limiti può anche ritirare la querela; invece con la denuncia la giustizia seguirà il proprio corso poiché il reato è procedibile d'ufficio. La querela è infatti anche una "condizione di procedibilità", cioè un requisito la cui mancanza determina l'impossibilità di punire il presunto autore del reato.
Trattandosi di un atto abbastanza complesso, è sempre meglio sporgere querela per mezzo di un legale, poiché spesso risulta difficile tradurre i fatti di cui si è stati vittima in ipotesi di reato: per esempio, la vittima può non sapere che alcuni fatti che sembrano secondari costituiscono invece delle aggravanti che rendono il reato procedibile anche d'ufficio. La querela può essere presentata al Pubblico Ministero o ad un ufficiale di Polizia Giudiziaria, anche oralmente; attenzione ai tempi, poiché per quasi tutti i reati la querela va presentata entro tre mesi da quando la vittima ha avuto notizia del reato.
Chiarite le differenze fra i tre atti, chiudo con un accenno ad una prassi purtroppo molto in voga nel nostro Paese, quella di inviare alle Autorità scritti anonimi sotto varie forme (esposti, denunce etc.) per segnalare presunti reati. 
Tendenzialmente gli scritti anonimi non devono essere presi in considerazione dalla giustizia penale: l'art. 333 c.p., in particolare, afferma che delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso. A maggior ragione ciò dovrebbe valere per la querela, non essendo individuata la vittima che chiede la punizione del colpevole.
Gli scritti anonimi, quindi, non impongono alcun obbligo di procedere, anche se vanno fatte due precisazioni.
La prima è che una denuncia o una querela anonime possono costare al loro autore (se individuato) una condanna per calunnia, se egli incolpa volontariamente un innocente o simula a carico di quest'ultimo le tracce di un reato.
La seconda è che la denuncia anonima, come detto, non obbliga l'Autorità Giudiziaria ad iscrivere la notizia di reato nell'apposito registro: malgrado ciò, dato che gli organi di giustizia e la Polizia Giudiziaria possono svolgere indagini di propria iniziativa quando vengono a conoscenza di fatti penalmente rilevanti (anche leggendo un'inchiesta giornalistica, per esempio), è chiaro che tali organi potranno avviare un'indagine autonomamente, specie se gli scritti anonimi sono ben circostanziati o provenienti (presumibilmente) da persone diverse.


lunedì 6 gennaio 2014

L'azione penale obbligatoria: cos'è e perché è importante per il cittadino "semplice"

L'articolo 112 della Costituzione stabilisce che "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale", ma da qualche anno torna ciclicamente l'ipotesi di modificare questa norma per trasformare l'azione penale da obbligatoria a discrezionale. Il tema può sembrare interessante solo al "circolo dei giuristi" e agli addetti ai lavori, ma forse da un punto di vista procedurale non c'è norma più importante per il cittadino che sia vittima di un reato. Vediamo perché.
L'obbligo dell'azione penale, tradotto in parole povere, significa che il magistrato (PM) venuto a conoscenza di una notizia di reato (es.: con una denuncia) deve compiere ogni atto di indagine utile per valutare la fondatezza di tale notizia, per stabilire cioè se la legge penale sia stata violata e chi debba eventualmente risponderne.
Se ritiene fondata la notizia, il Pubblico Ministero chiederà il rinvio a giudizio del presunto autore del reato, altrimenti opterà per la richiesta di archiviazione.
Questo meccanismo assicura soprattutto l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.): se l'azione penale fosse discrezionale, solo il cittadino "ricco" potrebbe permettersi un buon avvocato per convincere l'Autorità Giudiziaria a procedere. Mi spiego con un esempio: in Francia esiste un sistema "misto" per alcuni reati meno gravi, poiché il magistrato che riceve una denuncia può decidere di non procedere per ragioni di opportunità, di politica criminale e così via. Per "costringerlo" a proseguire e indagare, la vittima del reato deve formulare una querela con costituzione di parte civile, ma deve pure pagare una cauzione: è facile immaginare che un tale meccanismo può ingenerare discriminazioni.
Infatti, in un caso che qualche anno fa fece discutere molto, un cittadino francese si è rivolto alla Corte Europea dei diritti dell'uomo denunciando l'imposizione di una cauzione che non poteva permettersi, e la Corte ha riconosciuto che a quel cittadino era stato negato l'accesso alla giustizia (diritto fondamentale dell'uomo). Del resto quando sentiamo che negli USA un personaggio famoso viene scarcerato pagando una cauzione di milioni di dollari, la nostra coscienza ci suggerisce che lo stesso diritto non sarebbe stato assicurato ad una persona normale e non abbiente.
Altro esempio: una donna viene costantemente perseguitata dall'ex con appostamenti, minacce velate, comportamenti aggressivi e così via, ma per paura non si rivolge alla giustizia. E' giusto o sbagliato, secondo voi, garantire comunque la difesa della donna anche se il magistrato viene a conoscenza dell'accaduto da terzi e la donna, per sudditanza nei confronti dell'aggressore, non "insiste" nel pretendere la punizione dell'ex?
Qualcuno può obiettare: ma anche se il PM ha l'obbligo di fare le indagini non è detto che le faccia bene, per cui è possibile che chieda l'archiviazione e che la vittima resti priva di tutela. In realtà il codice di procedura penale, proprio per garantire pienamente il rispetto degli artt. 3 e 112, prevede un importante meccanismo: dato che il PM formula la richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari (GIP), quest'ultimo ha un forte potere di controllo sulla richiesta e può sia ordinare al PM di compiere nuove indagini, sia imporgli di formulare l'imputazione, cioè di promuovere l'accusa in giudizio riconoscendo la fondatezza della notizia di reato (art. 409 c.p.p.).

Come si vede, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale è determinante per garantire un eguale accesso alla giustizia, impedendo che la persecuzione dei reati sia dettata da scelte ideologiche, religiose, politiche o comunque da ragioni diverse dalla necessità di assicurare il rispetto della legge: perché, allora, la politica tenta da anni di mettere mano a tale principio? La risposta, senza nemmeno spremersi troppo le meningi, è fin troppo facile...

mercoledì 18 settembre 2013

Guida rapida ai casi di scioglimento del contratto

Volendo utilizzare un termine generico, lo scioglimento di un contratto può avvenire per varie ragioni, ciascuna delle quali si "traduce" in rimedi giuridici differenti, basati su presupposti precisi e aventi conseguenze diverse.
Pensiamo a quando ci leghiamo ad una società per ottenere un certo servizio (fornitura di energia, lavori di ristrutturazione etc.): può accadere che questo servizio non ci venga erogato, che la società ci abbia ingannato su ciò che ci offriva, che - più semplicemente - intendiamo liberarci da quel contratto per un ripensamento...
Ecco perché in questo post individueremo i casi più frequenti di cessazione del rapporto contrattuale, senza pretese di completezza: lo scopo è soltanto quello di spiegare la terminologia usata dal nostro codice civile per avere le idee più precise nel caso in cui dovessimo deciderci a rompere l'accordo.
Cominceremo col dire che non sempre lo scioglimento del contratto è voluto solo da una parte: se per concludere il contratto è necessario il consenso di tutte le parti, è chiaro che le stesse parti possono concordare per lo scioglimento. Ecco perché una prima causa di rottura del vincolo può essere il mutuo consenso (o mutuo dissenso).
Una causa frequente di scioglimento del contratto è invece la risoluzione: con questo termine si intende, nel caso più ricorrente, il rimedio concesso contro la parte inadempiente, cioè la parte che non ha tenuto fede ad uno o più obblighi derivanti dal contratto. Un esempio semplice: ho concluso un contratto con un'azienda telefonica che si era impegnata ad attivarmi un servizio, ma ciò non è avvenuto. Oppure: Tizio si è obbligato a consegnarmi del materiale per il matrimonio di mia figlia entro il giorno della cerimonia, ma non ha adempiuto per colpa propria rendendo inutile un adempimento successivo (cosiddetto "termine essenziale"). Altri casi di risoluzione possono invece andare a beneficio della parte inadempiente, anche se ciò può sembrare strano: può accadere, infatti, che io non possa più eseguire la prestazione per una causa non dipendente da me e che rende impossibile onorare il contratto (c.d. "impossibilità sopravvenuta"). Un esempio classico: mi impegno a consegnare tre scatole di un prodotto farmaceutico che, però, viene dichiarato illegale dopo aver concluso il contratto.
Si può dire, in generale, che i casi di risoluzione sono accomunati dal verificarsi di un evento "traumatico", successivo alla conclusione dell'atto e spesso imputabili ad una parte; tant'è vero che a volte, come nel caso dell'inadempimento, oltre alla risoluzione è possibile chiedere anche un risarcimento.
Vi sono invece dei casi in cui l'evento che legittima lo scioglimento del vincolo è contemporaneo alla conclusione, come avviene nelle ipotesi di rescissione del contratto quando questo è stato concluso: a) in stato di pericolo, con condizioni inique per un soggetto (l'esempio di scuola è la guida alpina che, approfittando dello stato di pericolo di una persona che rischia di precipitare, chiede una cifra esorbitante per il salvataggio); b) in stato di bisogno, con lo sfruttamento di tale stato e squilibrio delle prestazioni (esempio: vendo un bene ad un prezzo molto più basso del suo valore perché ho bisogno di comprare delle medicine che non potrei procurarmi altrimenti).
Sono ulteriormente diversi i casi in cui, a prescindere da eventi "traumatici", viene concessa ad una parte la possibilità di sciogliere unilateralmente il vincolo, senza dover pagare nulla e senza la necessità del consenso della controparte: ciò avviene con il recesso dal contratto, un diritto accordato di solito al "contraente debole", per esempio al consumatore o all'acquirente di una certa merce.
Vale la pena, infine, spendere alcune parole anche sui casi in cui si intenda far valere la invalidità di un contratto: termine, questo, usato genericamente in diritto per indicare la non corrispondenza dell'atto rispetto ai requisiti indicati dalla legge: in breve, possiamo dire che il contratto è nullo se manca di alcuni requisiti essenziali prescritti dalla legge (ad es. la forma scritta, se è richiesta), o il consenso delle parti; è annullabile per vizi "meno gravi" rispetto a quelli che determinano la nullità, come quando il consenso c'è, ma è stato inficiato da un errore (ad es. sulle qualità di un bene).

martedì 14 maggio 2013

Quando il legislatore si esprime in Aramaico: cos'è "l'incidente probatorio"?


Nella cronaca giudiziaria i telegiornali e la carta stampata riportano spesso un’espressione, “incidente probatorio”, che sembra un incrocio tra la mitica supercazzola di Ugo Tognazzi e la lingua segreta del popolo elfico. Proveremo a spiegare cos'è in questo post, sperando di chiarire le idee a chi si domanda cosa diamine stia dicendo il giornalista di turno quando pronuncia l'oscura formula.

Dunque, il procedimento penale è diviso in varie parti, la prima delle quali è costituita dalle indagini preliminari. Tale fase serve a verificare se la notizia di reato (ad es. una denuncia) è fondata e se ci sono elementi sufficienti a sostenere un’accusa nel dibattimento, cioè nel processo vero e proprio, che ha invece lo scopo di scoprire se l'imputato di un reato è colpevole o innocente.
Nel dibattimento le parti (accusa e difesa soprattutto) esaminano i testimoni, presentano perizie e controbattono con altre perizie, valutano documenti e così via. Tutto ciò avviene nel contraddittorio, cosa che tendenzialmente manca nella fase delle indagini preliminari. Proprio per la mancanza di contraddittorio, di regola gli elementi raccolti durante le indagini non concorrono a formare il convincimento dei giudici sulla colpevolezza o sull'innocenza di chi è sospettato di aver commesso un reato; ciò è dimostrato anche dal fatto che nelle indagini c’è un Giudice per le indagini preliminari (il “gip”), mentre durante il dibattimento c’è un altro giudice, che ha la mente “sgombra” da ciò che è stato raccolto nella fase investigativa.
Tale struttura del procedimento penale garantisce il principio di immediatezza tra l’assunzione della prova e la decisione: i giudici del dibattimento devono convincersi sulla validità, la portata e il significato di una prova proprio grazie a ciò che emerge nel contraddittorio tra le parti e non su ciò che viene raccolto nelle indagini da Polizia, Carabinieri, Pubblico Ministero etc.
Tuttavia in molti casi non è possibile seguire tale struttura: se una persona sentita durante le indagini non può poi testimoniare in giudizio, ad esempio per una malattia, come si fa? E come si fa se bisogna analizzare una sostanza immediatamente, perché nell’attesa del dibattimento si può deteriorare? 
Ecco cos’è l’incidente probatorio: è un’udienza che si svolge nel contraddittorio delle parti solitamente durante le indagini preliminari, quindi prima del processo, e nella quale si assumono le prove nelle stesse forme prescritte per il dibattimento. Per cui un testimone, ad esempio, viene sentito con l’esame incrociato: nell’incidente probatorio, ciò che dice il testimone non concorre semplicemente a formare quegli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma diventa parte della decisione dei giudici sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. L’unica differenza col dibattimento è che l’udienza in questione si svolge senza pubblico, cioè in camera di consiglio.
A questo punto vi domanderete: ma perché questo strano nome, “incidente probatorio”? Perché ha la caratteristica di essere un’eccezione alla rigida regola della separazione tra indagini e dibattimento, quindi è un “incidente” nella struttura del procedimento penale, e in più ha valore “probatorio”, valore che normalmente manca agli atti delle indagini. Ecco svelato l'arcano!