venerdì 27 dicembre 2013

Il Governo alle prese con il processo (poco) civile

Con un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri il 17 dicembre 2013 il Governo ha inteso mettere mano ad un processo civile che, secondo tutti gli osservatori, rappresenta uno degli ostacoli principali allo sviluppo economico del nostro Paese. Purtroppo negli ultimi anni gli interventi legislativi hanno soltanto reso il sistema più instabile e complicato, senza risultati rilevanti sulla riduzione del processo e sulla sua efficienza.
Anche l'ultima proposta governativa si muove su questa ambiguità di fondo: partire da princìpi giusti per poi tradurli in norme confuse, tralasciando invece quei suggerimenti che circolano in ambienti legali (seppure in poche e inascoltate "isole felici") e che potrebbero garantire il risultato che la politica si propone da tempo.
Cominciamo dalle buone intenzioni, com'è sicuramente quella di attribuire al giudice il potere di disporre, quando si tratta di causa semplice, il passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Per i non addetti ai lavori, il primo è il processo civile "normale", mentre il secondo ne è una versione "ristretta", con minori rigidità soprattutto nella fase istruttoria e dell'assunzione delle prove. Il problema è che già oggi accade spesso che il giudice passi dal rito sommario a quello ordinario: si verifica quindi l'esatto contrario di quanto auspica il disegno di legge, il che solleva leciti scetticismi sull'efficacia del meccanismo, anche perché si rischia di trattare con due procedimenti diversi (ordinario e sommario) due cause simili solo perché un giudice ha discrezionalmente ritenuto "semplice" una causa che l'altro ha ritenuto complessa, cosa che non garantisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l'uguale tutela del diritto al contraddittorio.
Un'altra buona intenzione, inseguita però in modo assai dubbio, è quella di diminuire il carico dei giudici di primo grado e di appello. Ai primi viene attribuito il potere di emettere una sentenza in "formato tascabile", mi si perdoni l'atecnicismo: potranno infatti limitarsi a redigere il dispositivo (cioè la parte che accoglie o respinge la domanda, condanna una parte o l'altra etc.) accompagnato dall'indicazione dei fatti e delle norme sulle quali si fonda la decisione, rimettendo alle parti la scelta se richiedere la motivazione estesa ai fini dell'impugnazione della sentenza.
Dicono infatti gli autori della riforma: poiché soltanto il 20% delle sentenze rese in primo grado sono impugnate e circa il 77% di queste ultime sono confermate, il giudice di primo grado non deve perdere tempo a scrivere le motivazioni della sentenza a meno che non glielo chieda espressamente la parte che intende fare appello. Meglio che il giudice spenda quel tempo nelle altre cause. In realtà questa idea è quasi surreale per almeno due ragioni: se non so quale ragionamento ha fatto il giudice per condannarmi, come faccio a proporre appello? Anche perché, e questa è la seconda ragione, il disegno di legge impone a chi vuole impugnare la sentenza (e quindi avere le motivazioni) l'anticipato versamento di una quota del contributo unificato dovuto per il grado successivo: il che vuol dire che devo pagare una parte delle spese del giudizio d'appello solo per avere le motivazioni e decidere se impugnare o meno. Un paradosso, visto che un grande giurista del passato diceva che il più alto segno di civiltà giuridica è la motivazione della sentenza: del resto l'art. 111 della Costituzione stabilisce che "tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati".
Meno dissennata, invece, è l'idea di consentire ai giudici d'appello di rifarsi alla motivazione già esposta dal giudice di primo grado, ovviamente in caso di conferma del provvedimento impugnato, sempre per "risparmiare tempo"; così come è buona l'idea di assegnare a un organo monocratico anziché collegiale gran parte delle cause d'appello, limitando a pochi e più delicati casi l'intervento del collegio.
Ha fatto infuriare gli avvocati, poi, la norma che prevede che anche il difensore paghi insieme al cliente in caso di condanna per la cosiddetta lite temeraria, una regola che molti hanno definito punitiva nei confronti dei legali, ma che in realtà non mi sembra così scandalosa: la lite temeraria sussite in caso di mala fede o colpa grave; ciò significa o che chi ha agito/resistito in giudizio sapeva di non avere alcun diritto, e quindi ha causato un danno alla controparte col suo comportamento scorretto, oppure che non si è attenuto alle regole professionali (nel caso dell'avvocato) o alle regole del buon senso (nel caso del cliente), preferendo intasare i tribunali e ostacolare le giuste pretese dell'altro senza alcuna ragione di diritto. "Fare causa" è un diritto, non un obbligo: chi abusa di questo diritto va punito come accade per l'abuso di qualsiasi altra posizione giuridica di vantaggio.
Molti altri sono gli aspetti controversi delle proposte venute dal Consiglio dei Ministri, mentre - come si diceva in apertura - restano irrisolti alcuni nodi. Ne cito due, solo per dare uno spunto di riflessione.
Primo: perché non puntare ad uno snellimento del rito ordinario? Al momento, il processo civile ordinario prevede che l'attore citi in giudizio il convenuto: i due si "fronteggiano" con due atti diversi (citazione e comparsa di risposta), ai quali rispondono con le "memorie 183", ovvero tre atti distinti; poi ci sono le udienze per sentire i testimoni; poi, finalmente, le parti si scambiano altre memorie (le comparse conclusionali) alle quali rispondono con ulteriori atti (memorie di replica)...e per presentare ognuno di questi atti le parti hanno a disposizione un tempo assai ampio che in linea di principio sarebbe anche corretto, ma che finisce per dilatare all'infinito il tempo dei processi visto che ogni giudice ne ha da fare centinaia e forse migliaia. Snellire questo batti e ribatti non è proprio possibile, tenendo conto del fatto che spesso alcune delle memorie citate rappresentano mere ripetizioni di ciò che è stato detto in precedenza?
Secondo: perché non introdurre nel nostro sistema i "danni punitivi"? Ne ho parlato in un precedente post: in breve, Tizio deve a Caio 2.000 euro e si rifiuta più volte di restituirli. Si difende anche in giudizio, magari in modo pretestuoso, e per di più fa pure appello e ricorso in Cassazione tanto per tirarla per le lunghe. Passano otto anni e finalmente Caio ottiene i sospirati 2.000 euro, che però Tizio non gli dà in contanti costringendo Caio a pignorare i beni dell'altro (e via altri soldi per l'avvocato). Bene: quanto ci vuole a mettere una regola che "punisce" seriamente tali comportamenti costringendo il debitore che resiste a risarcire il creditore con una somma pari (ad esempio) a dieci volte quella richiesta in origine? Forse molti debitori smetterebbero di sfuggire e onorerebbero le proprie obbligazioni. In America fanno così: il risarcimento non è commisurato solo al danno patito, ma anche al comportamento tenuto, e infatti lì chi ha torto non ha interesse ad agire o resistere in giudizio, mentre ha tutto l'interesse a pagare subito o a fare una transazione. Il risultato è che il processo si fa solo quando serve. Ma si sa, gli altri sono sempre matti: siamo noi che abbiamo capito tutto...

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