Con un disegno di legge
varato dal Consiglio dei Ministri il 17 dicembre 2013 il Governo ha
inteso mettere mano ad un
processo civile che, secondo tutti gli osservatori, rappresenta uno
degli ostacoli principali allo sviluppo
economico del nostro Paese. Purtroppo negli ultimi anni gli
interventi legislativi hanno soltanto reso il sistema più instabile
e complicato, senza risultati rilevanti sulla riduzione del processo
e sulla sua efficienza.
Anche l'ultima proposta
governativa si muove su questa ambiguità di fondo: partire da
princìpi giusti per poi tradurli in norme confuse, tralasciando
invece quei suggerimenti che circolano in ambienti legali (seppure in
poche e inascoltate "isole felici") e che potrebbero garantire il risultato che la politica si propone da tempo.
Cominciamo dalle buone
intenzioni, com'è sicuramente quella di attribuire al giudice il
potere di disporre, quando si tratta di causa semplice, il passaggio
dal rito ordinario al rito sommario. Per i non addetti ai lavori, il
primo è il processo civile "normale", mentre il secondo ne
è una versione "ristretta", con minori rigidità
soprattutto nella fase istruttoria e dell'assunzione delle prove. Il
problema è che già oggi accade spesso che il giudice passi dal rito
sommario a quello ordinario: si verifica quindi l'esatto contrario di quanto auspica il
disegno di legge, il che solleva leciti scetticismi sull'efficacia
del meccanismo, anche perché si rischia di trattare con due procedimenti diversi (ordinario e sommario) due cause simili solo perché un giudice ha discrezionalmente ritenuto "semplice" una causa che l'altro ha ritenuto complessa, cosa che non garantisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l'uguale tutela del diritto al contraddittorio.
Un'altra buona
intenzione, inseguita però in modo assai dubbio, è quella di
diminuire il carico dei giudici di primo grado e di appello. Ai primi
viene attribuito il potere di emettere una sentenza in "formato
tascabile", mi si perdoni l'atecnicismo: potranno infatti
limitarsi a redigere il dispositivo (cioè la parte che accoglie o
respinge la domanda, condanna una parte o l'altra etc.) accompagnato
dall'indicazione dei fatti e delle norme sulle quali si fonda la
decisione, rimettendo alle parti la scelta se richiedere la
motivazione estesa ai fini dell'impugnazione della sentenza.
Dicono infatti gli autori
della riforma: poiché soltanto il 20% delle sentenze rese in primo
grado sono impugnate e circa il 77% di queste ultime sono confermate,
il giudice di primo grado non deve perdere tempo a scrivere
le motivazioni della sentenza a meno che non glielo chieda
espressamente la parte che intende fare
appello. Meglio che il giudice spenda quel tempo nelle altre cause. In realtà
questa idea è quasi surreale per almeno due ragioni: se non so quale
ragionamento ha fatto il giudice per condannarmi,
come faccio a proporre appello? Anche perché, e questa è la seconda
ragione, il disegno di legge impone a chi vuole impugnare la
sentenza (e quindi avere le motivazioni) l'anticipato versamento di
una quota del contributo unificato dovuto per il grado successivo: il
che vuol dire che devo pagare una parte delle spese del giudizio
d'appello solo per avere le motivazioni e decidere se impugnare o
meno. Un paradosso, visto che un grande giurista del passato diceva
che il più alto segno di civiltà giuridica è la motivazione della
sentenza: del resto l'art. 111 della Costituzione stabilisce che
"tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati".
Meno dissennata, invece, è l'idea
di consentire ai giudici d'appello di rifarsi alla motivazione già
esposta dal giudice di primo grado, ovviamente in caso di conferma
del provvedimento impugnato, sempre per "risparmiare tempo";
così come è buona l'idea di assegnare a un organo monocratico
anziché collegiale gran parte delle cause d'appello, limitando a
pochi e più delicati casi l'intervento del collegio.
Ha fatto infuriare gli
avvocati, poi, la norma che prevede che anche il difensore paghi
insieme al cliente in caso di condanna per la cosiddetta lite
temeraria, una regola che molti hanno definito punitiva nei confronti
dei legali, ma che in realtà non mi sembra così scandalosa: la lite
temeraria sussite in caso di mala fede o colpa grave; ciò significa
o che chi ha agito/resistito in giudizio sapeva di non avere alcun
diritto, e quindi ha causato un danno alla controparte col suo
comportamento scorretto, oppure che non si è attenuto alle regole
professionali (nel caso dell'avvocato) o alle regole del buon senso
(nel caso del cliente), preferendo intasare i tribunali e ostacolare
le giuste pretese dell'altro senza alcuna ragione di diritto. "Fare
causa" è un diritto, non un obbligo: chi abusa di questo
diritto va punito come accade per l'abuso di qualsiasi altra
posizione giuridica di vantaggio.
Molti altri sono gli
aspetti controversi delle proposte venute dal Consiglio dei Ministri,
mentre - come si diceva in apertura - restano irrisolti alcuni nodi.
Ne cito due, solo per dare uno spunto di riflessione.
Primo: perché non
puntare ad uno snellimento del rito ordinario? Al momento, il
processo civile ordinario prevede che l'attore citi in giudizio il
convenuto: i due si "fronteggiano" con due atti diversi
(citazione e comparsa di risposta), ai quali rispondono con le
"memorie 183", ovvero tre atti distinti; poi ci sono le
udienze per sentire i testimoni; poi, finalmente, le parti si
scambiano altre memorie (le comparse
conclusionali) alle quali rispondono con ulteriori atti (memorie di
replica)...e per presentare ognuno di
questi atti le parti hanno a disposizione un tempo assai ampio che in
linea di principio sarebbe anche corretto, ma che finisce per
dilatare all'infinito il tempo dei processi visto che ogni giudice ne ha da
fare centinaia e forse migliaia. Snellire questo batti e ribatti non è
proprio possibile, tenendo conto del fatto che spesso alcune delle memorie citate rappresentano mere ripetizioni di ciò che è stato detto
in precedenza?
Secondo: perché non
introdurre nel nostro sistema i "danni punitivi"? Ne ho
parlato in un precedente post: in breve, Tizio deve a Caio 2.000 euro
e si rifiuta più volte di restituirli. Si difende anche in giudizio,
magari in modo pretestuoso, e per di più fa pure appello e ricorso
in Cassazione tanto per tirarla per le lunghe. Passano otto anni e
finalmente Caio ottiene i sospirati 2.000 euro, che però Tizio non gli dà
in contanti costringendo Caio a pignorare i beni dell'altro (e via
altri soldi per l'avvocato). Bene: quanto ci vuole a mettere una
regola che "punisce" seriamente tali comportamenti
costringendo il debitore che resiste a risarcire il creditore con una
somma pari (ad esempio) a dieci volte quella richiesta in origine? Forse molti
debitori smetterebbero di sfuggire e onorerebbero le proprie
obbligazioni. In America fanno così: il risarcimento non è
commisurato solo al danno patito, ma anche al comportamento tenuto, e
infatti lì chi ha torto non ha interesse ad agire o resistere in
giudizio, mentre ha tutto l'interesse a pagare subito o a fare una transazione. Il risultato è
che il processo si fa solo quando serve. Ma si sa, gli altri sono
sempre matti: siamo noi che abbiamo capito tutto...
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