mercoledì 28 giugno 2017

I sette requisiti del mobbing, tra diritto e psicologia

Questo blog si è occupato già in passato del cosiddetto "mobbing", ossia di quel fenomeno che si verifica sul luogo di lavoro quando il lavoratore è vittima di varie forme di vessazione, prevaricazione e pressione psicologica.
Nell'articolo pubblicato qualche anno fa, evidenziammo - fra l'altro - che la legge italiana non dà una definizione del mobbing, né lo affronta con norme specifiche; tali mancanze hanno reso inevitabile il moltiplicarsi di una ricca casistica sul fenomeno, che fondamentalmente rimane affidato all'interpretazione dei Tribunali.
Tuttavia, negli ultimi anni la materia ha ricevuto un discreto riordino grazie ad alcune sentenze della Corte di Cassazione, che ha cercato quantomeno di indicare dei confini più netti entro i quali si può valutare il fenomeno.
In particolare, per quanto difficile possa risultare un'analisi "scientifica" del mobbing, i Tribunali italiani sembrano ormai assestarsi intorno al cosiddetto "metodo Ege", elaborato dallo psicologo del lavoro Harald Ege.
Tale metodo consente non solo di verificare se un caso specifico può integrare mobbing, ma anche di quantificare il danno economico risarcibile al lavoratore.
Nella sentenza n. 10037 del 2015 la Cassazione ha richiamato proprio i sette parametri che - secondo il metodo Ege - dovrebbero sussistere contemporaneamente per poter affermare che ci si trova di fronte a un caso di mobbing.
In dettaglio, tali parametri sono:
1. l'ambiente lavorativo, nel senso che gli episodi di mobbing devono svolgersi sul posto di lavoro o quantomeno dipendere dal rapporto di lavoro;
2. la frequenza, poiché tali episodi devono ripetersi con una certa regolarità;
3. la durata, nel senso che il conflitto deve andare avanti da almeno sei mesi;
4. la tipicità delle azioni vessatorie, che devono rientrare in precise categorie elaborate dalla psicologia del lavoro;
5. il dislivello tra gli antagonisti (la vittima deve trovarsi in una situazione di costante inferiorità); 
6. l'andamento secondo fasi successive, nel senso che, secondo la psicologia del lavoro, il conflitto si sviluppa in varie fasi ed è necessario che nel caso specifico si sia raggiunta almeno una parte di esse;
7. l'intento persecutorio, dal momento che le azioni poste in essere nei confronti della vittima devono far parte di un disegno unitario e diretto alla mortificazione del lavoratore, alla sua esclusione dall'ambiente lavorativo o comunque alla sua sofferenza psicologica.
In presenza di tali parametri, che ovviamente vanno accertati in giudizio mediante consulenze di vario tipo, questionari sottoposti al lavoratore e testimonianze, è plausibile che il Giudice accerti l'esistenza di un danno per il lavoratore e condanni il datore al risarcimento.
Come si può vedere, la materia è ancora ai confini fra il diritto e la psicologia; torniamo a ripetere, dunque, che servirebbe un intervento legislativo che possa inquadrare meglio il fenomeno e assicurare una più ampia tutela ai lavoratori.

mercoledì 26 ottobre 2016

Non ritirare atti giudiziari o raccomandate: una pessima idea

Un problema che spesso noi avvocati ci troviamo ad affrontare è il mancato ritiro degli atti giudiziari o delle raccomandate da parte di clienti che, poi, si trovano in situazioni irrecuperabili.
Restando nello spirito di questo blog, che - come ho scritto più volte - è destinato soprattutto ai "profani" del diritto, eviterò molti tecnicismi e dirò subito che rifiutare o non ritirare i plichi consegnati dal postino o dall'ufficiale giudiziario è una pessima idea, benché molti siano convinti che, in tal modo, si possa utilizzare la scusa di non aver mai ricevuto niente.
La legge distingue, infatti, fra la "conoscenza legale" dell'atto e la "conoscenza effettiva": solitamente, se ricorrono alcuni presupposti previsti dalle norme vigenti, l'atto notificato si presume conosciuto dal destinatario anche se quest'ultimo non ha materialmente visionato il contenuto della busta ricevuta.
Ciò avviene, per citare un caso molto frequente, quando il destinatario dell'atto rifiuta di ricevere la busta nell'errata convinzione che ciò vada a suo favore.
Quando, invece, l'atto non può essere notificato per assenza del destinatario o di altre persone che potrebbero, per legge, riceverlo al suo posto, vi sono meccanismi alternativi che ne garantiscono la "conoscenza legale", come ad esempio il deposito dell'atto presso la casa comunale (per gli atti giudiziari) o presso l'ufficio postale (per le raccomandate), seguito dall'invio di una raccomandata informativa.
Se l'atto non viene ulteriormente ritirato, la notifica si considera perfezionata per "compiuta giacenza" dopo un certo periodo e, dunque, non è una buona idea nemmeno far decorrere questo lasso di tempo senza curare il ritiro dell'atto.
Le conseguenze del rifiuto o del mancato ritiro di un atto, come accennavo sopra, possono essere molto pesanti: ad esempio, se si rifiuta la notifica di una cartella esattoriale, sarà più difficile contestare un futuro atto di pignoramento o un fermo amministrativo eccependo vizi propri della cartella presupposta, proprio perché questa andava impugnata autonomamente entro il termine di legge decorrente dalla sua notifica. 
E' quindi sempre consigliabile ritirare le raccomandate o gli atti giudiziari notificati e prenderne visione senza danneggiare o gettare via la busta, per poi recarsi da un avvocato nel più breve tempo possibile, poiché in molti casi la legge prevede termini assai brevi per difendersi.

giovedì 26 maggio 2016

L'e-mail "Querela per diffamazione aggravata" è una bufala, anche pericolosa!

Ecco un buon motivo per conoscere qualche principio elementare di diritto: può evitarvi brutte figure e...un virus sul computer.
Da qualche giorno, infatti, sta arrivando a molti utenti un'e-mail firmata da uno Studio Legale che invia una "querela per diffamazione aggravata", specificando che il destinatario avrebbe posto in essere, su Facebook, una "attività lesiva e dichiaratamente diffamatoria del diritto all’immagine, al nome, alla dignità e alla riservatezza" della Signora Francesca De Rossi.
Tuttavia, una querela (atto del quale abbiamo già parlato in un altro articolo) NON viene in alcun modo inviata al presunto autore del reato, poiché è un atto che la vittima (o il suo avvocato) presentano all'Autorità Giudiziaria, eventualmente per il tramite delle Forze dell'Ordine.
La mail in questione, dunque, è una bufala ed è anche pericolosa, poiché  può costare addirittura un virus per il computer se si clicca sul pulsante "scarica documento".
Chiunque avesse ricevuto tale comunicazione non deve fare altro che cestinarla immediatamente.

N.B.: al contrario di molti siti internet, non ho riportato, nel mio articolo, il nome dello Studio Legale indicato nella mail perché lo Studio esiste per davvero e, oltre ad essere vittima della bufala, ha subìto anche una certa pubblicità negativa dalla vicenda e dal modo in cui è stata raccontata: preferisco, dunque, evitare ulteriori pregiudizi per i Colleghi.

venerdì 25 marzo 2016

In vigore l'omicidio stradale: qualche lecito dubbio

E' passato quasi un anno da quando ci occupammo, su questo blog, del cosiddetto "omicidio stradale", che allora era un reato ancora allo studio del legislatore e che, invece, oggi entra ufficialmente in vigore per effetto della Legge 23 marzo 2016, n. 41.
Va subito detto che la legge non introduce il solo omicidio stradale, ma anche le lesioni personali stradali, e contiene numerose norme extra-penali di notevole interesse (ad esempio sulla revoca della patente e sui prelievi coattivi di materiale biologico) anche se, ovviamente, l'ipotesi dell'omicidio è quella destinata a fare più rumore e sulla quale ci soffermeremo in questa sede.
Ciò detto, per le considerazioni di carattere generale sulla nuova figura delittuosa, che ritengo in parte ancora valide, rinvio integralmente a questo vecchio post; ora che abbiamo di fronte il testo definitivo della legge che introduce il reato di omicidio stradale, però, possiamo affrontare qualche problema specifico delle nuove norme.
Anzitutto, si può definire l'omicidio stradale come un omicidio colposo causato in stato di ebbrezza (o sotto effetto di droghe), oppure in violazione di particolari norme della circolazione stradale.
Le pene, come prevedibile, sono molto severe e il legislatore ha previsto numerose ed articolate ipotesi sanzionatorie: si va dagli otto ai dodici anni di reclusione (per gli stati di alterazione più gravi), fino ad arrivare ai 18 anni in presenza di aggravanti (ad esempio per omicidio plurimo).
La critica principale mossa alle nuove norme riguarda proprio le pene eccessive, per almeno tre ragioni: la prima è che si tratta di un delitto sicuramente odioso e riprovevole, ma comunque non doloso, per cui le pene sarebbero eccessive già di per sé e non rispetterebbero il principio di proporzionalità tra il fatto e la sanzione. La seconda ragione è che le pene elevate possono spingere l'autore del reato alla fuga, specie se si trova in condizioni di scarsa lucidità. Infine, molti hanno sottolineato che la nuova legge sanziona in modo simile l'omicidio causato in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe (e quindi in una condizione di alterazione coscientemente auto-provocata) e quello causato per la violazione delle norme del codice della strada che molte volte il conducente vìola incolpevolmente.
Visto lo spirito di questo blog, vorrei sottoporre ai lettori solo alcune considerazioni di buon senso proprio su quest'ultimo aspetto.
La legge punisce con pene severissime anche chi causa la morte per aver sorpassato in presenza di striscia continua o in prossimità di un attraversamento pedonale o di un dosso. Se in astratto può sembrare giusto, facciamoci una domanda: le nostre strade consentono sempre a un automobilista normalmente attento di notare un attraversamento pedonale o un dosso? Sono sempre ben presegnalati? Sono sempre posti in punti ben visibili oppure spesso ce li ritroviamo nelle posizioni più improbabili? E le strisce al centro della carreggiata sono sempre ben visibili e coerenti oppure spesso ci troviamo in tratti in cui non si capisce quante strisce ci sono e come sono?
Un discorso simile vale per i limiti di velocità, spesso richiamati nelle nuove norme e posti alla base delle sanzioni: in tutta onestà, si può dire che i tali limiti sono sempre ben segnalati? O forse sono spesso indicati in modo ambiguo e incoerente?
Alla luce di queste considerazioni, il rischio di gettare nello stesso calderone il delinquente e il cittadino sfortunato c'è tutto.
Ovviamente non vogliamo mettere in discussione la necessità di essere prudenti al volante, ma qui si corre il rischio di far scontare molti anni di galera a una persona perché magari non si è accorta del pedone che attraversava sulle strisce ormai quasi cancellate poste dopo una curva (quante ce ne sono in giro? Migliaia, credo).
Quando, nei prossimi anni, le nuove norme verranno sottoposte al vaglio dell'applicazione pratica, nel "diritto vivente" (come lo chiamano i giuristi), vedremo se, come dicono alcuni, la propaganda ha prevalso ancora una volta sulla capacità di fare una buona legge e se i tanti dubbi che provengono da più parti sono giustificati o meno.

sabato 16 gennaio 2016

Il "contratto a tutele crescenti" in breve

Il 2016, per i lavoratori, sarà probabilmente ricordato come l'anno del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, strumento che - nelle intenzioni del Governo Renzi - dovrebbe rilanciare l'occupazione e la stabilità dei rapporti di lavoro.
Secondo l'attuale Governo, il ricorso alle assunzioni a tempo indeterminato dovrebbe essere incentivato da numerosi sgravi contributivi e dalla forte limitazione dell'utilizzo dei cosiddetti contratti atipici (collaborazioni a progetto, contratti a termine, etc.), oltre che dai vantaggi intrinseci del nuovo contratto a tempo indeterminato.
Vediamo, dunque, in cosa consistono le "tutele crescenti" previste dal decreto legislativo 23/2015, che, in attuazione della legge 183/2014 (il "jobs act"), ha appunto disciplinato l'atteso nuovo contratto a tempo indeterminato.
In realtà va subito detto che il legislatore non ha introdotto una nuova forma contrattuale, limitandosi a modificare le conseguenze che si verificano in caso di licenziamento del lavoratore a tempo indeterminato assunto successivamente al 7 marzo 2015 (data dell'entrata in vigore del D. Lgs. 23/2015).
Com'è noto, nello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970) il famoso articolo 18 tutelava fortemente il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, attraverso la reintegrazione nel posto di lavoro e il diritto al risarcimento.
Nei nuovi contratti a tempo indeterminato, invece, le ipotesi di riassunzione del lavoratore risultano decisamente ridotte, proseguendo così il disegno già intrapreso dalla "legge Fornero" del precedente Governo Monti. 
Con le nuove norme, nella maggior parte dei casi resta soltanto il diritto ad un'indennità economica, che "cresce" in base all'anzianità del lavoratore (da qui il nome del "nuovo" contratto).
Tra le ipotesi più importanti per le quali permane, oltre al diritto all'indennità economica, la reintegrazione, vanno segnalati i licenziamenti orali, quelli discriminatori, quelli definiti nulli dalla legge e i licenziamenti disciplinari per i quali venga accertata, in giudizio, l'inesistenza del fatto materiale addebitato al lavoratore.
Per quanto riguarda l'ammontare dell'indennità, le norme sono abbastanza complesse: in generale, l'indennità varia tra le 4 e le 24 mensilità (due per ogni anno di anzianità), ma è attenuata in alcune significative ipotesi, come ad esempio nelle piccole imprese, dove oscilla tra 1 e 6 mensilità (1 per ogni anno di anzianità), oppure nelle ipotesi di licenziamento viziato da irregolarità procedurali.
Sempre nelle piccole imprese, poi, è esclusa la riassunzione anche nell'ipotesi di licenziamento disciplinare per il quale venga accertata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale.
Come si può notare, dunque, le "tutele crescenti" consistono, fondamentalmente, nel proporzionare le garanzie di natura economica nei casi di licenziamento illegittimo: per i detrattori della riforma, ciò vuol dire, in sostanza, "monetizzare" il lavoro e liberalizzare i licenziamenti; per i sostenitori, al contrario, ciò stimolerà le imprese ad assumere con un contratto a tempo indeterminato (grazie anche agli sgravi contributivi), con tutte le garanzie che tale contratto offre, senza ricorrere ai contratti atipici e senza il timore dell'obbligo di riassunzione in caso di licenziamento illegittimo, fatto che, a detta di alcuni, rappresentava il principale freno alle nuove assunzioni.
Per il momento, alcuni dati sembrano confermare la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato, ma ai più attenti non sfuggirà che, da un lato, c'è l'effetto-novità, amplificato, com'è facile immaginare, dagli sgravi contributivi; dall'altro, c'è ancora una indubbia incertezza che circonda il destino dei contratti atipici e l'intero mercato del lavoro, fatto che ha spinto molte imprese a ricorrere al più semplice e tipico dei contratti di lavoro.
In conclusione, se davvero il 2016, come dicevamo in apertura, sarà ricordato come l'anno del contratto a tutele crescenti, lo vedremo soltanto sul medio-lungo periodo.

sabato 28 novembre 2015

Le rotatorie: regole e consigli

Le rotatorie, chiamate anche rotonde o rondò alla francese, sono strutture molto utili per arginare gli incidenti stradali, perché evitano gli scontri frontali negli incroci (tutti i veicoli viaggiano nello stesso senso di marcia) e riducono i potenziali punti di collisione, concentrando altresì lo sguardo del conducente in uno spazio limitato.
E' anche per questo che le vecchie rotatorie "all'italiana", cioè quelle senza segnaletica ove vige il normale obbligo di dare la precedenza a destra, sono sempre più in disuso, a vantaggio di quelle "alla francese", ove la segnaletica - costituita dal segnale di dare precedenza e dai "triangolini" disegnati a terra, all'ingresso della rotatoria, non lascia dubbi: bisogna dare la precedenza a chi è già all'interno dell'anello.
Tuttavia ho notato che molti conducenti ancora non hanno capito il funzionamento delle rotatorie alla francese, malgrado siano tutto sommato molto intuitive e richiedano il rispetto delle normali regole della circolazione stradale.
Ecco, dunque, una piccola guida all'utilizzo delle rotonde con diritto di precedenza.
Per cominciare, secondo un parere del Ministero dei Trasporti, come regola generale bisognerebbe segnalare con la freccia a sinistra l'ingresso nella rotatoria e con la freccia a destra l'uscita.
Quando la rotatoria ha una sola corsia (ad esempio, questa) è sufficiente dare la precedenza a chi già è dentro, segnalando la svolta a destra con la freccia quando si intende uscire (come si può vedere, nell'immagine l'auto che sta entrando ha azionato la freccia a sinistra per segnalare l'ingresso).
Tuttavia può capitare che, benché la rotatoria abbia una sola corsia, la strada che si immette nell'anello ha più di una corsia: in questo caso si applica la regola generale secondo cui l'automobile nella corsia più a destra entra per prima, altrimenti l'automobile più a sinistra taglierebbe la strada all'altra.
Quando invece il numero delle corsie della strada da cui ci si immette è lo stesso delle corsie presenti nella rotatoria, sarebbe preferibile mantenere la propria corsia anche nell'anello, nel senso che l'automobile più a destra dovrebbe occupare l'anello più esterno, mentre l'automobile più a sinistra dovrebbe mantenere l'anello più interno etc.: ovviamente questa regola vale soprattutto per dare maggiore scorrevolezza in entrata, poiché per uscire dalla rotatoria è meglio osservare le seguenti regole generali.
Quando si intende uscire alle prime uscite, è meglio tenersi sull'anello più esterno per poter quindi prendere l'uscita sulla destra; altrimenti, è possibile tenersi anche sugli anelli centrali, chiaramente segnalando la volontà di cambiare corsia e, poi, di uscire dalla rotatoria, con la freccia a destra.
A questo proposito, per evidenti ragioni di sicurezza bisogna ricordare che non bisogna mai tagliare la strada ai veicoli che percorrono la corsia più a destra: ciò vuol dire che se ci si trova su un anello più interno e si vuole uscire dalla rotatoria, ma c'è un'auto che percorre la corsia più a destra, è prudente fare un giro completo della rotonda, spostandosi di corsia con più calma, per poi uscire dove si desidera (ovviamente quando non sia possibile cambiare corsia tempestivamente).
L'unica eccezione a questa regola può esservi quando il veicolo che si trova alla nostra destra ha già impegnato la nostra stessa uscita: in questo caso, una volta sicuri che non sopraggiungano altri veicoli alla nostra destra e che intendono continuare la circolazione nell'anello, sarà possibile procedere parallelamente all'altro veicolo ed immettersi nell'uscita desiderata.
Da quanto abbiamo detto, è evidente che - soprattutto in caso di incertezza sull'uscita - spesso può essere consigliabile percorrere la corsia più esterna della rotatoria, poiché questa, anche se normalmente è meno scorrevole, dev'essere impegnata solo dai veicoli che stanno per svoltare e dalle altre corsie nessuno dovrebbe tagliarci la strada.
Ma, anche in questo caso, bisogna fare attenzione: molte volte i veicoli pesanti, ad esempio quelli con rimorchio, si allargano a sinistra (cioè verso il centro dell'anello) e poi svoltano a destra. In questa ipotesi, trovarsi sulla destra del veicolo può essere pericoloso ed è meglio stare dietro il mezzo pesante.
Allo stesso modo, poiché molti automobilisti tendono a "tagliare" la rotonda per impegnare l'uscita, bisogna fare attenzione ai veicoli che dalle corsie più interne tentano l'uscita repentina dall'anello.
Seguendo queste poche regole, non dovreste avere problemi: tuttavia, per una maggiore sicurezza, vi invito a cercare anche su internet dei video dimostrativi realizzati dalla Polizia Stradale o da alcuni Comandi di Polizia Locale.

giovedì 30 luglio 2015

Coppie di fatto: perché è giusto tutelarle

Il dibattito sulla necessità di disciplinare i rapporti giuridici ed economici nelle coppie di fatto torna ciclicamente nel nostro Paese, tra i pochi - nel mondo occidentale - a non dettare un'apposita normativa in materia.
Vorrei quindi sottoporre alcune riflessioni di tipo tecnico-giuridico sul punto, senza entrare in ambiti più spinosi come i diritti delle coppie omosessuali o l'adozione da parte di coppie di fatto sia etero che omosessuali.
Spesso il dibattito sui diritti delle coppie di fatto si apre e si chiude con questo argomento: ma se due persone non vogliono sposarsi, perché bisognerebbe garantire loro reciproci diritti e doveri? Non sono proprio queste persone a non volere diritti e doveri? "Se vuoi i diritti, sposati", leggo spesso in molte discussioni sulla Rete.
Questo punto di vista è giuridicamente sbagliato. Il matrimonio civile italiano, per come è stato concepito dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, si muove in un'ottica fortemente paternalistica: lo Stato, per riequilibrare la condizione (all'epoca) socialmente inferiore della donna, decise di prevedere fondamentalmente una sola forma matrimoniale, fortemente protezionistica nei confronti della moglie.
Il matrimonio del 1975, ancora in vigore, è infatti un "blocco unico" che impone ai coniugi di comportarsi in un certo modo (obbligo di coabitazione, di fedeltà etc.) e di regolamentare i rapporti patrimoniali o con la comunione dei beni o con la separazione dei beni, con l'unica eccezione (peraltro non molto pratica) della comunione "convenzionale", che permette di escludere o includere nella comunione alcune categorie di beni, o con l'istituto del "fondo patrimoniale" al quale si ricorre raramente perché, ancora una volta, è fonte di numerosi problemi applicativi.
In sostanza, le formalità burocratiche e le norme di legge non sono al passo con i tempi e, infatti, gli studiosi di diritto propongono almeno una mini-riforma dei rapporti patrimoniali fra i coniugi (quelli personali sono spesso regolati anche da interpretazioni "adeguatrici" dei giudici: pensiamo all'obbligo di fedeltà).
Per cui, il primo problema è che lo Stato vuole intervenire in ogni aspetto della vita matrimoniale. Si spiega così la impossibilità (o l'estrema difficoltà) per i futuri coniugi di stipulare dei patti prematrimoniali, che consentano una disciplina dei rapporti economici più adatta alle esigenze della coppia (possibilità che, invece, è largamente riconosciuta in molti Stati e che, fra l'altro, svolge un'ottima funzione di prevenzione del contenzioso).
Da un altro lato, il problema è che ci sono una serie di diritti, negati alle coppie di fatto, che possono essere riconosciuti solo se ci si ingessa in quel "blocco unico" di cui si parlava finora e che, invece, dovrebbero essere considerati come diritti civili, non matrimoniali.
Non sempre la vita di coppia è una convivenza "more uxorio" (cioè simile al matrimonio): l'affetto e i sentimenti prescindono dal modo in cui si sceglie di stare insieme.
Pensate a questo esempio pratico, che tra l'altro è molto frequente nella realtà: una persona separata, magari per colpa di ripetuti tradimenti, si rifà una nuova vita con un'altra persona; ebbene di fronte allo Stato, finché c'è matrimonio, in sostanza il coniuge può mantenere una serie di diritti che al nuovo partner non possono essere riconosciuti in alcun modo, come la reversibilità della pensione in caso di morte, il diritto agli alimenti in caso di bisogno, il trattamento di fine rapporto, la riserva di una quota ereditaria, il diritto di abitazione, il diritto di assistere il partner in caso di malattia e così via.
Perché tutti questi diritti devono derivare per forza e soltanto dal matrimonio? Non sono forse diritti civili che potrebbero essere attribuiti mediante un atto di volontà privata?
Alla luce di tutto quanto detto sinora, è evidente che nessuno vuole distruggere il matrimonio civile, ma mantenerlo in vita così com'è non ha senso e sono sicuro che la "fuga" dalle nozze è causata più da questa rigidità della legge che dal venir meno del valore della famiglia. Affiancare al matrimonio "classico" (che, ripeto, è sacrosanto mantenere in vita) una regolamentazione più moderna dei rapporti di coppia è, dunque, un atto di civiltà.
Per fortuna, alcune riforme recenti hanno reso meno gravosa almeno la fase dello scioglimento del matrimonio; speriamo, quindi, che in quest'ottica lo Stato cominci ad allentare la morsa che da decenni impone alla volontà privata.