La
legge italiana non disciplina in modo specifico il fenomeno del “mobbing”, cioè
quelle forme di vessazione, prevaricazione e pressione psicologica compiute
indebitamente nei confronti di una sola persona, solitamente sul luogo di
lavoro. In mancanza di tale disciplina, le vittime di mobbing devono quindi
affidarsi alla versione elaborata nei tribunali, chiaramente frammentaria
perché ciò che può apparire vessatorio in un contesto lavorativo e sociale può
non sembrare tale in un altro.
Leggendo
le varie sentenze rese dai giudici italiani sul tema, si può affermare che la
vittima di mobbing ha più chance di ottenere tutela sul piano civile, e quindi
sotto forma di risarcimento, mentre resta più vaga e debole la protezione
offerta dal diritto penale.
In
ambito civile, le varie ipotesi di indebita pressione psicologica o anche
fisica sul luogo di lavoro sono state ricondotte nella fattispecie di cui
all’art. 2087 c.c.
L’art.
2087 stabilisce infatti che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro”. Secondo la Cassazione, quindi, grava sul
datore di lavoro un obbligo specifico di
proteggere l’integrità psico-fisica del lavoratore (Cass., sent. n. 4184/2006).
Ciò
anche alla luce di quanto affermato dalla sentenza n. 399 del 1996 della Corte
Costituzionale: secondo quest’ultima, il diritto alla salute viene
salvaguardato anche mediante condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che
non pongano a rischio questo diritto essenziale, di rilevanza costituzionale.
Per
cui l’art. 2087 non abbraccia soltanto le ipotesi di mobbing, ma ogni tipo di
situazione che minaccia o lede il diritto soggettivo del lavoratore ad operare
in un ambiente esente da rischi (Cass., sent. n. 4840/2006).
Tale
orientamento ha consentito addirittura di inquadrare nell’ipotesi dell’art.
2087 quei casi in cui i comportamenti vessatori, pur non unificati da un
disegno unitario, abbiano avuto l’effetto di mortificare psicologicamente il
lavoratore, causandogli un danno: tutto ciò, ovviamente, fornendo la prova che
il datore di lavoro sia venuto meno all’obbligo di attivarsi per tutelare la
personalità del lavoratore.
Sul
piano penale, come dicevamo, la tutela è più sfumata: ferma restando la
possibilità di punire i singoli atti di prevaricazione (ingiurie, molestie,
minacce etc.), manca una figura di reato che reprima quelle forme di
persecuzione espresse concretamente con tali atti, ma legate da uno stesso
intento vessatorio. Ciò pone un problema non di poco conto, perché i reati di
ingiuria, molestia o minaccia sono puniti in modo assai blando.
In
alcuni casi, tuttavia, le ipotesi di mobbing sono state ricondotte al reato di
maltrattamenti contro familiari o conviventi, previsto dall’art. 572 c.p.,
recentemente oggetto di una mini-riforma nel 2012: prima di tale riforma,
mancava un riferimento alla “convivenza” (es.: coppie di fatto), ma già si
estendeva il concetto di famiglia alle forme di coabitazione simili. Sulla base
di ciò, la Cassazione ha ammesso l’applicabilità del reato di maltrattamenti in
famiglia anche alle ipotesi di mobbing sul luogo di lavoro purché il contesto
lavorativo si caratterizzi per modalità, abitudini, affidamento e fiducia
tipici della comunità familiare (Cass., sent. n. 12517/2012; Cass., sent. n.
16094/2012).
In
sostanza, la possibilità di reprimere penalmente il mobbing come una
particolare forma di maltrattamento contro un convivente è legata al requisito
della para-familiarità della relazione lavorativa, che dovrà essere provato
dalla vittima dimostrando la particolare forma di organizzazione del luogo di
lavoro, la qualità delle relazioni e l’informalità delle stesse, le
consuetudini della vita lavorativa e così via.
Se
dunque una minima tutela penale esiste, è
evidente che la vittima sopporta un onere della prova non certo leggero, e che
ad ogni modo resta priva di ogni protezione una vasta area di episodi e
situazioni: si pensi ai casi di dequalificazione o demansionamento della
vittima per ottenere le sue dimissioni, o a quei casi in cui atti in sé
legittimi (es.: richiami disciplinari, comunicazioni) siano utilizzati per uno
scopo diverso dal normale, solo per mortificare il dipendente.
Mi rispecchio molto in questo articolo, anche io ho sofferto e sto soffrendo perchè sono vittima di mobbing sul posto di lavoro.
RispondiEliminaCercando in rete mi sono imbattuto in un video che propone come alleviare la mia sofferenza. Grazie a questo video a poco a poco sto cominciando ad affrontare e eliminare le cause del mio disagio. Per questo motivo vi consiglio questo video sulla sofferenza