mercoledì 24 dicembre 2014

Depenalizzazioni e bufale: quando la Rete si scatena

In questi giorni stanno circolando con insistenza vari link, articoli e post sui Social Network che parlano di una presunta "depenalizzazione" di ben 112 reati, tra i quali (per fare qualche esempio che colpisce l'opinione pubblica) omicidio colposo, stalking, maltrattamento di animali, furto, corruzione etc.
Lo dico subito: è una bufala. Molti siti internet già hanno spiegato, con l'intervento di avvocati, giuristi e tecnici molto più bravi di me, per quale motivo la notizia è falsa o comunque quasi totalmente inesatta: basta fare una ricerca su Google scrivendo "depenalizzazione 2014", "bufala depenalizzazione" etc.
Cercherò, quindi, di spiegare anche su questo blog come stanno realmente le cose.
Innanzitutto, un chiarimento: per "depenalizzazione" si intende la scelta di non considerare più reato un determinato comportamento, colpito solo in sede civile (risarcimento) o amministrativa (sanzione pecuniaria come quelle per chi vìola il Codice della Strada). Onestamente, vi pare possibile che l'omicidio colposo non possa essere più reato? Già questo basterebbe a considerare dubbia la notizia. E infatti questo ci porta al punto successivo.
La Legge 67/2014, "fonte" della bufala, è una legge-delega. Significa che il Parlamento incarica il Governo di legiferare su una questione, indicando i princìpi e criteri direttivi cui ispirarsi (art. 76 Cost.). Il Governo sta lavorando in questi giorni all'emanazione del decreto legislativo "ispirato" a quella legge, che prefigura una mini-riforma del diritto penale.
Per quanto riguarda l'argomento della bufala, facciamo chiarezza e dividiamo i reati interessati dalla legge-delega in due categorie.
Categoria A: Comprende alcuni reati minori, per i quali l'art. 2, comma 2, della Legge 67, prevede davvero una depenalizzazione. Tuttavia, quest'ultima riguarda fondamentalmente i reati puniti con "la sola pena della multa o dell'ammenda", peraltro nemmeno tutti poiché la legge ne esclude diversi. Si tratta chiaramente di ipotesi per le quali non è previsto già ora il carcere, ma solo una sanzione in denaro: cosa cambia se invece di pagare a titolo di multa si paga a titolo di sanzione amministrativa? Per chi li commette e per chi li subisce, nulla; tuttavia, chi è vittima di reati più gravi avrà processi più efficienti, poiché i Tribunali non saranno intasati dai cosiddetti "reati bagatellari".
Tra i reati realmente depenalizzati citiamo, come esempio, l'ingiuria e gli atti osceni, roba che da secoli i giuristi chiedono di sanzionare sul piano amministrativo o civile
Categoria B: Questi reati NON c'entrano nulla con la depenalizzazione, ma è su questi che è nata e si è diffusa la bufala.
L'art. 1, comma 1, lettera m) della Legge 67, chiama il Governo a introdurre e disciplinare una nuova causa di non punibilità per i reati puniti "con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale".
Molti siti hanno preso la lista dei reati che rientrano in questa categoria (stalking, omicidio colposo, furto, maltrattamento di animali etc.) e hanno scritto che sono stati depenalizzati, cioè che non sono più reato, che non è più punibile lo stalking, che rubare ora si può, che non si andrà più in carcere per certi reati (confondendo a volte le pene con la custodia cautelare) e così via. "112 reati depenalizzati" è la bufala più ricorrente di questi giorni.
Ora, esaminiamo tali allarmismi dal punto di vista della "coerenza interna". Come abbiamo visto sopra, la "vera" depenalizzazione riguarda alcuni reati puniti solo con multa o ammenda, quindi con pene pecuniarie. Allora perché la categoria B fa riferimento anch'essa ai reati puniti "con la sola pena pecuniaria"? Se davvero il Parlamento avesse voluto depenalizzare stalking, omicidio colposo etc., non avrebbe dovuto inserirli tutti nella categoria A che trasforma quei reati in "illeciti amministrativi"?
La verità è che la categoria B è interessata da un'ipotesi diversa: quando il fatto è tenue e la condotta non è abituale, il Pubblico Ministero può chiedere l'archiviazione, cioè chiedere che non si faccia il processo, allo stesso modo in cui adesso può formulare richiesta d'archiviazione quando la notizia di reato è infondata. Infatti lo schema di decreto legislativo prevede una modifca al codice di procedura penale stabilendo quanto segue: "Se l’archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto, il pubblico ministero deve darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, che abbia dichiarato di volere essere informata ai sensi dell’articolo 408, comma 2, precisando che, nel termine di dieci giorni, possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta". In sostanza, è la stessa disciplina dell'archiviazione per infondatezza della notitia criminis.
Quello che i bufalari non dicono, però, è che la clausola di non punibilità NON è automatica e quindi non si applica per forza a tutti i reati della "categoria B". 
Ad esempio, gli Uffici del Ministero della Giustizia hanno già chiarito che la non punibilità sarà inapplicabile al maltrattamento di animali per ragioni tecnico-giuridiche.
Sempre per ragioni simili, l'ipotesi di particolare tenuità non è compatibile con lo stalking, che per definizione è "reato abituale" (cioè commesso con "condotte reiterate" come dice lo stesso art. 612-bis c.p. che lo disciplina).
Altro aspetto che i bufalari non riportano (per malafede o impreparazione) è che l'ipotesi della tenuità del fatto non è un'invenzione di questo Governo: esiste già nel rito penale innanzi al Giudice di Pace e, col nome di "irrilevanza del fatto", nel diritto penale minorile. 
In sintesi, il Parlamento ha deciso di trasformare in illeciti amministrativi alcuni reati minori (categoria A). Gli altri restano reati, ma - ove possibile e ove compatibile con la struttura del reato stesso - potranno essere "abbonati" in alcuni casi (tipico è l'esempio del pensionato che ruba una mela al supermarket).
Come si può immaginare, buttare tutto nel calderone delle depenalizzazioni, del "non è più reato", del "rubare si può", del "non si va più in carcere", è pericolosissimo, perché spinge le vittime di reato ad avere ancora meno fiducia nella giustizia, a non denunciare, a subire. Insomma: spinge chi non è libero a rinunciare alla propria libertà. Questo è il vero delitto.

lunedì 15 dicembre 2014

Patente a punti: le "piccole" infrazioni che costano tanto

Spesso il Codice della Strada punisce in modo molto rigoroso alcuni comportamenti che in apparenza sembrano "innocenti", ma che a uno sguardo più attento vengono puniti non tanto per l'atto in sé, quanto per la sua capacità di mettere a rischio la sicurezza stradale.
E' lo stesso principio che spinge gli Enti locali a prevedere limiti di velocità bassi per quelle strade che all'apparenza sembrano dritte e prive di pericoli: normalmente questo apparente paradosso si spiega col fatto che magari su quella strada ci sono accessi privati, strisce pedonali, incroci etc., e quindi l'alta velocità potrebbe contribuire ad aumentare i pericoli.
In sostanza, ciò che conta per il Codice della Strada è salvaguardare la sicurezza di chi circola, ed è per questo che il Legislatore tende a punire anche in modo severo quelle "piccole" infrazioni che, anche se non ce ne accorgiamo, in realtà sono la vera causa dell'alto tasso di mortalità sulle strade.
Basti pensare che, secondo i dati dell'Istat riferiti al 2012, quasi la metà degli incidenti è causata dal mancato rispetto delle regole di precedenza, dalla guida distratta e dalla velocità troppo elevata.
Con questa piccola guida, indicherò di seguito quelle "innocenti evasioni" che possono risultare estremamente pericolose, elencandole in ordine decrescente in base ai punti-patente decurtati, per far capire al lettore che questi comportamenti, oltre ad essere pericolosi per gli altri, sono anche controproducenti per chi li compie.

Sottrazione di 10 punti:
Tra queste infrazioni rientra in primo luogo la brutta abitudine di fare retromarcia in autostrada (ad esempio per aver saltato l'uscita). Inutile dire che se un'auto va a 20 km/h in retromarcia, l'urto con un veicolo che giunge a 130 km/h è praticamente fatale.
Lo stesso vale per la circolazione contromano su strade divise in carreggiate (es.: autostrade, extraurbane principali) o in curva, nonché per la circolazione sulle corsie d'emergenza al di fuori dei casi previsti.
Attenzione anche ad alcune ipotesi di allontanamento dal luogo di un incidente, quando lo stesso si è verificato per proprio comportamento: nei casi più gravi, oltre al rischio di un procedimento penale c'è anche la decurtazione di 10 punti.

Sottrazione di 8 punti:
Non dare la precedenza ad un pedone può costare la decurtazione di ben 8 punti, oltre ad una multa da oltre 150 euro: classico esempio di sanzione con finalità più preventive che punitive, vista la scarsa attenzione riservata dagli automobilisti ai pedoni. La perdita di 8 punti è prevista anche per chi fa inversione di marcia in punti "sensibili" (es.: curve, incroci, dossi).

Sottrazione di 6 punti:
E' la sanzione inflitta a chi non si ferma al segnale di Stop o passa col rosso, ma anche a chi prosegue la marcia quando il vigile (o un altro agente del traffico) intima l'arresto.

Sottrazione di 5 punti:
Chi non dà la precedenza, non rispetta le regole per il sorpasso o utilizza il cellulare senza auricolare perde ben 5 punti; tuttavia, anche circolare senza casco, senza cinture o senza lenti/occhiali ove prescritti può costare caro, con la decurtazione di 5 punti. Ricordiamoci che non usare la cintura non fa male solo a noi stessi: in primis, è sempre meglio fare da esempio per gli altri (se vostro figlio perdesse la vita per non aver usato la cintura, vivreste col rimorso di non averlo mai invogliato a indossarla?). In secondo luogo, non è giusto per gli altri aggravare le conseguenze di un incidente e scaricarle sulla collettività.

Sottrazione di 4 punti:
In questa categoria rientra la circolazione contromano nelle ipotesi meno gravi, ma anche la mancata circolazione sulla corsia più libera a destra in autostrada o nelle strade a due o più corsie; comportamento, quest'ultimo, purtroppo molto frequente visto che molti tendono a camminare al centro, intralciando spesso pericolosamente la marcia. A proposito, ricordiamo che la corsia di destra NON è una corsia per i veicoli lenti: è la corsia che andrebbe occupata normalmente, mentre bisogna spostarsi su quella centrale solo se la prima è occupata e così via.

Sottrazione di 3 punti:
Utilizzare in modo improprio gli abbaglianti può costare la perdita di ben 3 punti, non solo per l'evidente rischio di accecare chi viene in senso opposto, ma anche perché segnalare la presenza di pattuglie fa sentire solo più "protetti" gli automobilisti indisciplinati.

Sottrazione di 2 punti:
Il mancato rispetto della segnaletica (tranne i casi più gravi visti sopra, come lo Stop) e il mancato utilizzo delle frecce possono costare ben 2 punti. Oltre ad essere l'ABC della circolazione, questi due accorgimenti possono davvero salvare delle vite perché svoltare senza indicare la direzione può indurre gli altri a manovre fatali: pensate a un pedone che, credendo che un'auto prosegua dritta, attraversa e viene investito dal veicolo che svolta senza freccia.

Sottrazione di 1 punto:
L'uso improprio delle altre luci può costare la perdita di un punto: le "quattro frecce" per esempio non servono per parcheggiare in doppia fila. Perché rischiare? Tanto per il vigile non cambia nulla: l'auto in doppia fila non è di certo "giustificata" se ha le quattro frecce! La decurtazione di un punto è prevista anche per trasporto irregolare di persone, oggetti o animali: attenti a sovraccaricare l'auto in modo tale da ostacolare le normali manovre.

martedì 4 novembre 2014

La privacy ai tempi dei social network: i consigli del Garante

Il Garante per la protezione dei dati personali, meglio noto come Garante per la privacy, ha pubblicato nel 2009 un utile vademecum per una migliore tutela delle persone che utilizzano i social network o, meglio, per la autotutela, poiché si tratta di consigli destinati alla protezione di alcuni diritti individuali (nome, immagine, onore etc.) nella cosiddetta "era digitale".
Recentemente questo vademecum è stato aggiornato anche alla luce delle evoluzioni che la Rete sta vivendo negli ultimi anni e, quindi, mi sembra interessante riproporre alcuni suggerimenti su questo blog, che in alcune occasioni si è occupato dei diritti sulla Rete.

1. Esiste una vera "vita digitale"?
Secondo il Garante, una vita digitale nettamente separata da quella reale non esiste, nel senso che tutto ciò che viene pubblicato online può inficiare anche la vita di tutti i giorni: attenzione, quindi, a quei contenuti che potrebbero - pure a distanza di tempo - rivelarsi dannosi per la nostra vita professionale, sentimentale etc. Allo stesso modo, pubblicare foto che ritraggono altre persone non è una cosa da poco: nel dubbio, è meglio chiedere il consenso alle persone coinvolte, soprattutto se non sono iscritte ai social network e non possono controllare in alcun modo i "tag".

2. Sulla Rete nulla si distrugge
Un corollario di quanto detto al punto 1 è che l'inserimento di dati personali sui social network significa, spesso, una perdita di controllo di quei dati: le foto, le chat, le opinioni possono viaggiare in Rete in eterno e, qualche volta, può essere inutile addirittura la cancellazione di questi contenuti. Ad esempio, è possibile scattare, da qualsiasi computer, una "fotografia" ad una pagina internet e rendere visibile a tutti un contenuto poi cancellato o destinato solo a pochi; oppure è possibile che quei contenuti siano riutilizzati da altri siti internet per scopi più o meno leciti.

3. Il mito dell'anonimato
Le regole della civile convivenza, che puniscono chi diffama, insulta o calunnia gli altri, valgono anche sulla Rete. Non esistono "zone franche", spiega il Garante; in più, in caso di commissione di reati, le Autorità possono risalire alla persona che li ha commessi pensando di agire anonimamente (ad esempio con un falso profilo Facebook o con un nickname). Nemmeno i "gruppi segreti" su FB oppure i forum per pochi utenti sfuggono a questa regola: se nella vita reale gli amici ci "tradiscono", rivelando i nostri segreti ad altri, perché non dovrebbe succedere la stessa cosa su internet?

4. Da carnefice a vittima
I social network vengono utilizzati spesso come contenitori delle peggiori frustrazioni personali: i gruppi, le pagine e i profili personali contengono messaggi "contro qualcuno", nella maggiore parte dei casi senza alcuna verifica delle fonti (cioè della veridicità di ciò che si pubblica). Bisogna fare molta attenzione a questi giochi perversi perché potrebbero ritorcersi contro chi ne fa parte. Pubblicare continuamente contenuti falsi (contro persone comuni o contro personalità pubbliche) non solo espone al rischio di illeciti penali, ma fa fare anche la figura del credulone che abbocca a qualsiasi contenuto che gira sulla Rete.

5. Attenzione alle "app", anche quelle che sembrano più innocue
Sui social network (ma anche sugli smartphone) si trovano le applicazioni più disparate. Ma fate attenzione: avete mai pensato che, pubblicando una foto che vi ritrae in un posto oppure registrandovi in una località, potreste dare un indizio a qualche malintenzionato che volesse rubarvi dentro casa? Del resto, se anche i latitanti spesso hanno i profili su Facebook, perché non dovrebbero girare su FB pure i ladri? C'è un'app, ad esempio, che indica il percorso seguito da una persona che fa jogging, ma indica anche il momento in cui si comincia a correre: è il momento giusto per un malintenzionato, che sa di poter agire indisturbato per un'oretta.

Per concludere, riporto di nuovo il link alla Guida pubblicata dal Garante della Privacy: http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/3140082

In più, vi segnalo un ottimo manuale di autodifesa per agire senza troppi grattacapi su Facebook e Twitter, realizzato dal giornalista informatico e blogger Paolo Attivissimo (il cui blog vi consiglio caldamente, è anche linkato sul mio blog, qui a lato):

martedì 21 ottobre 2014

Fumi, gas e odori nauseabondi dal ristorante vicino: che fare?

La presenza di ristoranti, pizzerie, bar ed esercizi commerciali simili può rivelarsi un bel problema per chi vi abita vicino, specie quando il buon senso cede alle ragioni economiche. In un apposito articolo ci occuperemo più diffusamente dei rimedi contro la musica alta, gli schiamazzi e le altre forme di "inquinamento acustico"; adesso parleremo di cosa fare quando da un esercizio commerciale provengono odori fastidiosi, fumi o altre esalazioni.
Negli ultimi anni la materia è tornata prepotentemente alla ribalta anche per il proliferare di ristoranti etnici, che spesso utilizzano ingredienti poco graditi a noi italiani; in più alle poche norme contenute nel nostro codice civile si è andata ad affiancare una fitta normativa (spesso eccessivamente cavillosa e confusa) di natura amministrativa.
Partendo da quest'ultimo aspetto, si può dire infatti che le leggi in materia urbanistica e amministrativa regolamentano ormai ogni aspetto della vita degli esercizi commerciali: si pensi alle norme igienico-sanitarie, a quelle sulla corretta ubicazione delle canne fumarie e degli scarichi, sulla tipologia di locale e degli impianti da adottare etc.
Pertanto, gli scarichi maleodoranti, i fumi o le altre esalazioni potrebbero essere anche causati dalla violazione delle normative sopra citate: un primo rimedio esperibile prima di rivolgersi all'Autorità Giudiziaria potrebbe essere, quindi, una segnalazione alle autorità locali (Polizia Municipale).
Sul piano civilistico, come anticipato, il codice civile contiene poche norme (comprensibilmente, visto che fu emanato in un'epoca in cui l'economia era basata solo in piccola parte sull'industria): l'articolo 844 stabilisce che "le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino" possono essere impedite soltanto se "superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi".
In questo caso, ci si potrà quindi rivolgere all'Autorità Giudiziaria per far cessare le cosiddette "immissioni intollerabili", ma con una precisazione: "l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà".
In sostanza, dunque, il concetto di "normale tollerabilità" è relativo: chiaramente i fumi emanati in una zona altamente industrializzata sono "più tollerabili" rispetto a quelli emanati in zone di campagna. 
Per cui, da questa serie di norme, si possono individuare tre ipotesi principali: se nel caso concreto non viene superata la soglia della normale tollerabilità, avuto conto dello stato dei luoghi, il danneggiato non avrà - chiaramente - diritto ad alcuna tutela. 
Se le immissioni superano la normale tollerabilità, ma sono giustificabili perché prevalgono le "esigenze della produzione", il danneggiato potrà esigere almeno un indennizzo.
Infine, se prevalgono le ragioni del danneggiato e le immissioni sono ingiustificate, la tutela sarà duplice perché il proprietario avrà diritto all'eliminazione della causa delle immissioni (es.: rimozione di una canna fumaria mal costruita e sostituzione della stessa), ma anche al risarcimento del danno.
Va ricordato, per completezza, che l'art. 844 cod. civ. attribuisce al giudice la facoltà di "tener conto della priorità di un determinato uso", e cioè del fatto che in molti casi la destinazione d'uso di un locale o di una zona è già nota a chi va a viverci. In poche parole, se io mi trasferisco in una zona industriale, dove le esalazioni di fumi o gas sono all'ordine del giorno, certamente la responsabilità di chi mi danneggia sarà considerata con minor rigore.

martedì 30 settembre 2014

Giustizia civile: il Governo sbaglia mira

Il decreto-legge n. 132/2014, varato pochi giorni fa dal Governo, è stato presentato come un provvedimento decisivo per velocizzare i tempi dei giudizi civili. La parola principale utilizzata dai tecnici dell'Esecutivo è stata "degiurisdizionalizzazione"; termine quasi impronunciabile, che significa - in breve - che il Governo vuole far risolvere le cause pendenti davanti ai giudici civili in altre sedi, per accelerare i tempi dei processi.
L'arretrato della giustizia civile è abnorme e se ne parla poco, forse perché il pubblico è colpito più dai processi penali e si accorge solo di quanto è lungo il caso di Garlasco. Eppure il settore civile è quello che ci interessa nella vita di tutti i giorni: la famiglia, il condominio, gli incidenti stradali, le cartelle esattoriali e le imprese che vogliono recuperare i soldi dei debitori sono tutti lì, in quegli oltre cinque milioni di processi civili pendenti all'inizio di quest'anno.
Ma il provvedimento del Governo, che sicuramente non è "la" riforma del processo civile, riuscirà almeno a mettere una pezza alla situazione tragica dei tribunali italiani?
Sul punto, provo nel mio piccolo ad avanzare qualche dubbio in merito alle ricette di Renzi e della sua squadra, analizzando le più rilevanti senza alcuna pretesa di completezza.

1. Arbitrato
Le parti, anche nel corso di un giudizio pendente, potranno chiedere di spostare la causa dal Tribunale ad un Collegio arbitrale (cioè formato da arbitri privati che operano con le stesse garanzie di terzietà dei giudici). La norma in sé è interessante, ma il decreto richiede che le parti facciano una istanza congiunta al giudice. Per quale motivo due litiganti, che non si sono messi d'accordo prima del giudizio (ad esempio con la mediazione, già prevista dal nostro ordinamento), dovrebbero trovare un accordo per farsi decidere la controversia in una sede peraltro molto costosa? Il debitore che vuole sfuggire al creditore che interesse avrebbe ad accelerare i tempi della giustizia?

2. Conciliazione assistita
Gli avvocati che assistono le parti durante una conciliazione stragiudiziale potranno "certificare" gli accordi, anche in materia di separazione e divorzio, e tali accordi costituiranno titolo esecutivo (cioè potranno essere usati anche per pignorare i beni del debitore). Le perplessità sono le stesse di cui sopra: la parte che è "nel torto" non trova più conveniente attendere il giudizio vero e proprio che, magari, dura anni? Che interesse ha il debitore a prestare il consenso ad un titolo esecutivo per farsi pignorare i propri beni?

3. "Chi perde paga...sempre"
Il provvedimento vuole cancellare dal codice di procedura una norma che consente al giudice di compensare le spese, cioè derogare alla regola del "chi perde paga", quando ricorrono "gravi ed eccezionali ragioni". Togliendo questa norma, la parte che vuole agire o resistere in giudizio pur sapendo di avere torto sarebbe scoraggiata, poiché dovrebbe rimborsare all'altra le spese del giudizio (anche quelle per pagare l'avvocato) sempre, a meno che non vi sia soccombenza reciproca (cioè che le parti abbiano entrambe un po' torto e un po' ragione) o una questione particolarmente nuova per il diritto. Mi sembra un'idea ragionevole, che peraltro gli addetti ai lavori richiedono da tempo, anche se nella pratica processuale mi sembra che molti debitori inadempienti resistano in giudizio pur sapendo di essere palesemente nel torto. Comunque, sempre meglio una norma chiara che una ambigua.

4. Passaggio al rito sommario
Nell'attuale codice quasi tutte le cause civili possono essere introdotte, a scelta di chi inizia la causa, con un rito ordinario oppure con un rito sommario. Quest'ultimo, in sostanza, richiede minori formalità e quindi viaggia con più speditezza. Tuttavia, mentre il giudice può scegliere di passare dal rito sommario a quello ordinario se ritiene che la causa non può essere decisa con un'istruttoria semplificata, non è possibile l'inverso: il decreto vuole consentire quest'ultima possibilità. Il problema è che nella prassi si dispone spesso il mutamento del rito, quindi i dubbi sul funzionamento di questa norma sono legittimi: se ora i giudici ritengono spesso inadatto il rito sommario e ordinano il passaggio a quello ordinario, perché da ora in poi dovrebbero agire in senso inverso? In più, come scrivevo quando già il Governo Letta avanzava questa proposta, si rischia di trattare con due procedimenti diversi (ordinario e sommario) due cause simili solo perché un giudice ha discrezionalmente ritenuto "semplice" una causa che l'altro ha ritenuto complessa, cosa che non garantisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l'uguale tutela del diritto al contraddittorio. Non sarebbe più semplice ed efficace rendere obbligatorio il rito sommario per alcune materie, come già avviene in molti casi?

giovedì 10 luglio 2014

Comunione o separazione dei beni: qual è la scelta migliore?

Diciamolo subito: rispondere alla domanda che fa da titolo a questo post è impossibile. Però, dato che se la pongono in molti, è bene sgombrare il campo da un equivoco comune, poiché molte coppie di coniugi scelgono l'uno o l'altro regime o per ragioni "assistenziali" (scelgo la comunione per "aiutare" il coniuge debole) o, al contrario, individualistiche (scelgo la separazione perché voglio essere indipendente e poi nella vita "non si sa mai").
Ora è vero che la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha voluto riequilibrare le diverse condizioni sociali ed economiche tra uomo e donna, prevedendo la comunione dei beni come regime "naturale" in mancanza di una diversa scelta dei coniugi. Ma è anche vero che nel frattempo la società è profondamente cambiata e, quindi, marito e moglie dovrebbero sfruttare la flessibilità offerta dalla legge per ponderare al meglio la scelta in base alla propria situazione economica, posto che - a differenza di quanto accadeva 40 anni fa - al giorno d'oggi quasi sempre entrambi hanno un lavoro.
In linea di principio, si può dire che se anche uno solo dei coniugi è un professionista, un imprenditore o un lavoratore autonomo, la separazione dei beni è più consigliabile perché rende "inattaccabile" il patrimonio dell'altro coniuge in caso di vicende sfavorevoli (fallimento, debiti etc.).
Al contrario, se entrambi i coniugi sono dipendenti, forse la comunione dei beni è più appropriata (specie se la posizione economica dei coniugi è più o meno la stessa).
Va però detto che le norme del codice civile sulla comunione danno spesso luogo a difficoltà interpretative, e forse questa è la causa che spinge le coppie ad optare sempre più per la separazione dei beni.
Di contro, va a favore della comunione il fatto di bilanciare - come detto - eventuali differenze economiche (anche sopravvenute) tra i coniugi. Facciamo l'esempio di una coppia, in regime di comunione dei beni, che ad un certo punto decide di fare un figlio. Entrambi i coniugi lavorano e hanno lo stesso reddito, ma decidono che la donna si dedicherà completamente alla famiglia dopo la nascita. Con la comunione, i diversi contributi alla vita familiare (economico-lavorativo per il marito, casalingo-familiare per la moglie) non daranno luogo a sperequazioni, poiché gli acquisti futuri cadranno automaticamente nella comunione anche se, dal punto di vista strettamente economico, sarà più che altro il marito a sostenerne il costo.
A favore della separazione dei beni va invece una maggiore elasticità: i coniugi, ad esempio, possono comprare ugualmente una casa insieme, anche "in quote" (es.: 2/3 il marito e 1/3 la moglie), e disporre di tali quote liberamente; nella comunione dei beni, invece, non esiste la stessa possibilità poiché tale forma di comunione viene definita "senza quote". 
In caso di contrasto sulla gestione di alcuni beni (es.: immobili), quindi, il coniuge dovrebbe rivolgersi al giudice per ottenere, eventualmente, la vendita, altrimenti l'atto compiuto è annullabile.
Non vi è invece alcuna differenza tra i due regimi per quanto riguarda le questioni ereditarie, contrariamente a quanto si pensa: il coniuge superstite è erede dell'altro sempre, per legge. Tutt'al più, possono cambiare le quote: se il coniuge è proprietario di un immobile che cade in comunione, chiaramente in caso di morte l'altro coniuge resterà titolare del 50% del bene (poiché la comunione si scioglie), e solo l'altra metà del bene ricadrà nella successione; se invece il defunto era esclusivo titolare del bene, acquistato dopo il matrimonio in regime di separazione, il 100% del bene cadrà nella successione.
Un esempio veloce: Tizio, sposato con Caia e padre del solo Tizietto, muore, lasciando una casa acquistata dopo il matrimonio. 
In caso di comunione, solo il 50% della casa sarà diviso tra Caia e Tizietto, che avranno ciascuno la metà di quella quota, cioè il 25% del totale (pertanto Caia, sommando tale quota al 50% che già aveva, avrà il 75% del bene). 
In caso di separazione, invece, Caia e Tizietto avranno ciascuno il 50% del bene.
Per concludere, quindi, la soluzione migliore è forse quella di chiedere il consiglio ad un esperto prima di scegliere, ricordando che in ogni caso il regime patrimoniale può essere modificato in momenti successivi (seppur con le formalità richieste dalla legge).

giovedì 19 giugno 2014

Quando la "sosta selvaggia" diventa un reato

L'abitudine di lasciare l'automobile dove capita può costare non solo una spiacevole multa ma, a volte, può essere anche un atteggiamento che assume rilevanza penale. Nelle grandi città è spesso quasi impossibile trovare un posto e capita di dover ricorrere al "parcheggio creativo": attenzione, però, agli abusi e ai comportamenti sbagliati nei confronti degli automobilisti che in quel momento stanno dalla parte della ragione.
Non molti, infatti, sanno che in varie occasioni la Cassazione ha ravvisato il reato di violenza privata nella condotta dell'automobilista che "blocca" gli altri utenti della strada lasciando l'auto in sosta selvaggia. 
Questo reato consiste nel costringere qualcuno a a fare, tollerare od omettere qualche cosa con violenza o minaccia, e la Suprema Corte ormai da tempo riconosce che la violenza non è solo quella fisica ma può assumere qualsiasi forma, purché sia idonea a privare la vittima della sua libertà di autodeterminazione.
Così, la Corte ha condannato più volte gli automobilisti che parcheggiano davanti ad un passo carrabile, finendo per impedire totalmente al proprietario di un garage di accedere o uscire col proprio mezzo.
Di recente, la sentenza n. 25785/2014 ha affrontato il caso di un soggetto che aveva bloccato intenzionalmente il passaggio ad un altro automobilista (col quale in passato aveva avuto, sembra, "liti di vicinato"), impedendo l'ingresso alla proprietà.
La sentenza, però, oltre a ribadire che tale caso costituisce un'ipotesi di violenza privata, è interessante anche per due ragioni.
La prima è che il rifiuto di spostare l'auto può manifestarsi in forme del tutto peculiari: nel caso in questione, l'automobilista "bloccato" aveva suonato il clacson più volte e il proprietario dell'auto in sosta selvaggia si era affacciato senza fare nulla. E' chiaro che, in questo caso, la volontà di fare un torto è ben evidente: state quindi attenti ai comportamenti strafottenti o che indicano palesemente la presenza del cosiddetto "dolo", cioè la coscienza e la volontà di nuocere.
La seconda ragione è che la Cassazione ritiene integrato il reato anche se l'auto che blocca il passaggio può essere spostata da chiunque perché ha le chiavi inserite nel cruscotto. Nel caso in questione, infatti, l'automobilista "maleducato" si è difeso proprio affermando tale circostanza, tanto che poi è stato suo figlio a togliere la vettura dalla sosta. Secondo la Corte, però, è sempre un onere del proprietario "rimuovere la situazione antigiuridica consapevolmente creata in precedenza".
Attenzione a dove lasciate l'auto, quindi!

venerdì 23 maggio 2014

Residenza, domicilio e dimora: differenze ed esempi pratici

A volte una breve chiacchierata durante un'interminabile fila può essere utile per avere un'idea e scrivere un nuovo post. Stamattina, infatti, mi è capitato di scambiare qualche parola con una signora che, per chiedere un certificato, faceva una certa confusione tra residenza, dimora e domicilio: tre termini che per la legge hanno significati diversi anche se, nel gergo colloquiale, spesso vengono utilizzati indifferentemente. Cerchiamo di capirci di più, facendo esempi tratti dalla vita di tutti i giorni.
L'articolo 43 del codice civile specifica che il domicilio di una persona è il luogo in cui essa "ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi"; la residenza, invece, "è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale". Per cui, anche se non esiste una definizione apposita, la dimora è il luogo in cui si vive e può essere anche transitoria: pensiamo ad una persona costretta a trasferirsi temporaneamente in albergo.
In sostanza la differenza sta nel diverso utilizzo della residenza e del domicilio: mentre la prima è il luogo in cui normalmente si abita, il domicilio è più specifico e riguarda più che altro la vita professionale. Pertanto, un medico potrebbe avere la sua "dimora abituale" a Roma, vivendo lì con la sua famiglia, ma avere il proprio studio a Latina e quindi avere lì il suo domicilio.
Altra differenza importante è che in alcuni casi, cioè per specifici affari, si può "eleggere domicilio speciale": ciò accade ad esempio quando si inizia un processo e si elegge domicilio presso lo studio del proprio legale per ricevere lì tutte le comunicazioni. Per cui il medico dell'esempio di cui sopra potrebbe avere non solo il domicilio generale del suo studio, ma anche quello eletto presso il suo avvocato di Viterbo, solo ai fini del processo ovviamente.
Poiché, invece, la residenza è un dato piuttosto "stabile", è chiaro che non si può "eleggere" la residenza ma "fissarla", come si dice nel linguaggio giuridico. 
Quindi, se si cambia dimora (cioè luogo in cui si abita), bisognerà distinguere tra caso e caso: se lo spostamento è duraturo (poiché ad esempio ci si trasferisce in un'altra città, oppure si lascia la famiglia d'origine dopo il matrimonio), sarà meglio chiedere il cambio di residenza. Ciò perché molte volte la legge dà per scontato che una persona ha ricevuto un atto (es.: una raccomandata o un atto giudiziario) avendo una stabile dimora in un luogo; oppure perché molti effetti di legge (es.: assegnazione del medico di famiglia, della circoscrizione elettorale etc.) dipendono proprio dalla residenza.
Riepilogando: il nostro medico avrà la residenza a Roma, il domicilio generale a Latina, il domicilio eletto a Viterbo...e magari la dimora a Capri se affitta una casa per un mese e se ne va in vacanza lì, beato lui!

lunedì 28 aprile 2014

Ti tamponano e non hai la cintura? Attenzione al concorso di colpa!

Con un'interessante sentenza del 20 febbraio scorso (n. 7777/2014), la Corte di Cassazione è intervenuta su un caso che si verifica di frequente in occasione di un incidente stradale e che può essere riassunto in questa domanda: se la colpa dell'incidente è mia, ma l'altro automobilista non indossava la cintura di sicurezza, la mia responsabilità è meno grave?
Secondo la Corte, in questa ipotesi si applica l'articolo 1227 del codice civile: tale norma afferma, in poche parole, che nel caso in cui un comportamento colposo del danneggiato abbia contribuito a causare il danno il risarcimento è "diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate".
Per cui, dato che indossare la cintura di sicurezza è un preciso obbligo che la legge impone per la tutela dell'incolumità fisica, i danni fisici causati possono essere ricondotti anche sotto la responsabilità dell'automobilista che non indossa la cintura.
Tuttavia, per essere precisi occorre ricordare (come fa la stessa Corte in sentenza) che l'articolo 1227 distingue due ipotesi: la prima è quella che abbiamo appena citato, cioè il caso in cui il comportamento del danneggiato è una concausa del danno; la seconda, invece, è quella in cui il comportamento del danneggiato ha soltanto aggravato l'evento, ma senza avere alcuna incidenza dal punto di vista causale. 
La differenza sta principalmente nella ripartizione della responsabilità fra danneggiante e danneggiato (com'è facile intuire), ma anche nell'onere probatorio: infatti soltanto "nella prima ipotesi, contrariamente che nella seconda, il giudice deve proporsi d'ufficio l'indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato" (Cass. n. 2641/2013; Cass. n. 529/2011). Nell'altro caso, invece, il danneggiante dovrà offrire la prova rigorosa che il danno è stato aggravato dal comportamento del danneggiato, al quale non saranno dovuti i danni che avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.
Comunque sia, in entrambi casi ricordatevi che la cintura di sicurezza può salvarvi non solo la vita, ma anche il portafogli!

mercoledì 2 aprile 2014

Multe sulle strisce blu: la toppa è peggio del buco?

Negli ultimi giorni molti automobilisti hanno esultato leggendo la risposta che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha dato ad un'interrogazione parlamentare: l'automobilista che paga ed espone correttamente il ticket per un tot di tempo ma prolunga la sosta oltre quel tempo non è soggetto a sanzione amministrativa (quella che normalmente chiamiamo "multa", anche se in modo errato).
Il chiarimento del Ministero è interessante da un punto di vista giuridico perché rimanda al principio della certezza del diritto: secondo il parere ministeriale, infatti, il Codice della Strada non sanzionerebbe direttamente l'ipotesi della sosta oltre l'orario pagato ma, per il combinato disposto dei commi 6 e 8 dell'articolo 157, punirebbe solo il caso della mancata esposizione del ticket (con la sanzione di 41 euro).
Per cui, secondo il Ministero, il caso in esame configurerebbe solo un "inadempimento contrattuale": in sostanza l'automobilista che acquista il ticket per le strisce blu stipula un contratto con l'Ente (es.: Comune) e, se non rispetta il limite temporale per il quale ha pagato, deve integrare il dovuto. A questo punto dovrebbe essere l'Ente, con apposito regolamento, a disciplinare le procedure di recupero delle somme non corrisposte, senza però poter prima multare l'automobilista. 
Tutto chiaro? Insomma. Perché - come ripetono i Comuni - è lo stesso Codice della Strada a prevedere che la Giunta comunale possa stabilire "aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe in conformità alle direttive del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le aree urbane". 
Ma a questo punto il rischio dell'incertezza è pressoché inevitabile: se ogni comune adotterà un regolamento differente, affidando a enti diversi il compito di recuperare i crediti, prevedendo sanzioni diverse e meccanismi di gestione delle aree di sosta differenti, l'automobilista dovrà diventare una sorta di tuttologo dei comuni! 
Un tipico esempio della proverbiale toppa che rischia di essere peggiore del buco, anche se il Ministero ha ribadito che presto il Codice della Strada indicherà i confini entro i quali i Comuni potranno redigere i regolamenti. 
Non ci resta che sperare nella ben nota saggezza del legislatore italiano...

martedì 18 marzo 2014

Domanda & Risposta: le spese legali

La recente emanazione del regolamento ministeriale sui parametri per i compensi dei legali (avvocati e praticanti abilitati) offre un ottimo spunto di riflessione per un argomento che da tempo volevo trattare sul blog, cioè le spese da affrontare per una causa oppure per una consulenza legale. In particolare, nello spirito di questo blog, vorrei dare al lettore pochi chiarimenti in forma di domanda e risposta, solo per rispondere ai dubbi più ricorrenti, rimandando un'analisi più approfondita ad eventuali commenti e ad articoli futuri.

1. Chi stabilisce il compenso per il legale?
Il criterio-guida è l'accordo fra legale e cliente: tra i due può essere stipulato un vero e proprio contratto d'opera professionale in forma scritta, con la previsione del compenso e l'oggetto dell'attività (procedimento civile/penale, consulenza stragiudiziale etc.). Il legale, quindi, può praticare al cliente anche un "prezzo" inferiore rispetto ad altri colleghi e rispetto ai parametri del link sopra riportato.
Una seconda strada è appunto quella dei parametri indicati dal regolamento ministeriale: in sostanza è il giudice che, all'esito di una causa, liquida le spese direttamente in sentenza, tenendo presenti aspetti come il tipo di procedimento, il valore dello stesso, le fasi in cui si articola etc. Il lato positivo dei parametri è che la persona che intenda intraprendere un giudizio o chiedere una consulenza può farsi un'idea dei costi da sostenere e valutare così l'opportunità di agire, fermo restando che (come detto) l'accordo con il legale può prevedere un compenso diverso.

2. Chi paga le spese legali?
Il cliente, in linea di principio, è tenuto ad anticipare le spese, tanto per il giudizio (es.: marche da bollo, contributo unificato, copie etc.), quanto per l'attività professionale del legale. Solitamente si versa un acconto al conferimento dell'incarico o "per fasi", poiché normalmente l'attività del legale prevede vari momenti che peraltro anche il regolamento ministeriale considera: è di nuovo importante sottolineare che l'accordo legale-cliente deve basarsi sulla fiducia reciproca e sulla trasparenza soprattutto sugli aspetti economici e sulla difficoltà dell'opera.

3. Ma non vale la regola del "chi perde paga"?
Nel processo civile sì, perché il giudice, in sentenza, "condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa" (art. 91 c.p.c.): ne deriva che le spese anticipate possono essere recuperate in caso di "vittoria". 
Accade spesso, però, che il giudice "compensi le spese", stabilendo che ogni parte dovrà pagare per sé e non anche per le altre. Ciò si verifica soprattutto in caso di "soccombenza reciproca", cioè quando (in termini atecnici) il giudice accerta che la ragione non sta tutta da una sola parte; tuttavia, la compensazione delle spese può essere decisa dal giudice anche quando si "vince" la causa, per una serie di "giusti motivi" che magari qui sarebbe lungo spiegare ma che, occorre dirlo, vengono spesso invocati dai giudici italiani.
E' bene evidenziare che il giudice liquida le spese che ritiene necessarie e proporzionate all'attività svolta, per cui - eventualmente - il cliente dovrà sopportare spese maggiori corrisposte al legale sulla base degli accordi intercorsi.
Nel processo penale, invece, la parte sostiene interamente l'onere delle spese anche in caso di assoluzione, e può recuperarle solo in rari casi (ingiusta condanna accertata dopo la revisione del processo, tanto per fare un esempio).

martedì 25 febbraio 2014

Il defunto lascia debiti: cosa può fare l'erede?


La posizione di erede non comporta sempre e solo vantaggi: pensiamo al caso di chi è chiamato a succedere ad una persona che in vita ha accumulato molti debiti. Cosa si deve fare in questi casi? In questo post cercheremo di fornire una risposta rapida su alcune questioni fondamentali, fermo restando che la materia delle successioni è molto complessa e ogni caso meriterebbe un apposito approfondimento.
Il primo aspetto da tenere in mente è che l'erede non può rinunciare all'eredità una volta che l'abbia accettata: "semel heres, semper heres", dicevano i giuristi dell'antica Roma ("una volta erede, erede per sempre"). Pertanto è bene ricordare che l'accettazione è irrevocabile e che provoca la cosiddetta confusione tra i patrimoni dell'erede e del defunto, con la conseguenza che i creditori di quest'ultimo potranno aggredire direttamente anche i beni dell'erede.
E' importante sottolineare che l'accettazione può essere fatta anche con dei comportamenti che, inequivocabilmente, segnalano la volontà dell'erede di accettare: pensiamo all'erede che richiede a un debitore del defunto il pagamento di un debito, o che (al contrario) preleva dall'eredità una somma di denaro per saldare un debito del defunto.
In questi casi il rischio per l'erede è di accettare un patrimonio nel quale ci sono più passività che parti in attivo.
Il primo modo per evitare i rischi della confusione tra i due patrimoni è rinunciare all'eredità con una dichiarazione fatta a un notaio o al cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e poi inserita nel registro delle successioni (art. 519 cod. civ.).
E' un atto molto drastico, che peraltro non può essere sottoposto a condizioni o termini, né può riguardare una sola parte dell'eredità; pertanto bisognerà riflettere bene sulla situazione patrimoniale del defunto prima di compierlo.
Un'altra strada da seguire è l'accettazione con beneficio d'inventario, fatta con una dichiarazione nelle stesse forme della rinuncia: questo tipo di accettazione consente di tenere separati i due patrimoni. L'effetto principale di ciò è che l'erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti.
Per poter trarre vantaggio da tale forma di accettazione, però, l'erede è tenuto appunto a redigere l'inventario, che consiste in un conteggio contabile per determinare attività e passività del patrimonio del defunto, compresi i beni mobili e immobili.
L'inventario dev'essere redatto entro tre mesi, che decorrono dal giorno della dichiarazione di accettazione con beneficio d'inventario se l'erede non ha il possesso dei beni ereditari, oppure dal giorno dell'apertura della successione o della notizia della devoluta eredità se l'erede è già nel possesso dei beni ereditari a qualsiasi titolo. 
Se l'erede che ha accettato con beneficio d'inventario non rispetta questi termini (salvo proroghe del Tribunale), è considerato erede puro e semplice.

venerdì 14 febbraio 2014

Droghe leggere e droghe pesanti: ecco cosa ha detto (veramente) la Corte Costituzionale

Dopo aver falciato il "Porcellum" (v. post relativo) la Corte Costituzionale è intervenuta anche sulla famosa legge "Fini-Giovanardi" in materia di stupefacenti, dichiarandola incostituzionale all'esito della Camera di consiglio del 12 febbraio scorso. 
Su giornali e social network si sono sprecati i commenti, soprattutto sull'aspetto della legge che ha fatto indignare di più alcuni settori della politica e dell'elettorato, cioè l'equiparazione fra droghe leggere e droghe pesanti. Equiparazione che, secondo molti, sarebbe stata travolta dalla sentenza, per cui ora il legislatore dovrà ripensare la disciplina in materia di stupefacenti tenendo presente che le droghe leggere e le droghe pesanti vanno trattate diversamente: lo dice la Corte Costituzionale!
In realtà le cose non stanno proprio così: non nel senso che chi fuma una canna deve essere trattato come un eroinomane, ma nel senso che la Consulta non ha dichiarato illegittima la Fini-Giovanardi per la tanto contestata equiparazione.
In attesa delle motivazioni della sentenza, infatti, dobbiamo attenerci al comunicato della Corte stessa, il quale chiaramente fa intendere che la Fini-Giovanardi è stata cassata per una questione di "tecnica legislativa".
Spieghiamoci meglio: l'oggetto della pronuncia della Corte non è una "legge", ma solo un paio di norme contenute in un decreto-legge (precisamente, artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272). 
Ora l'art. 77 della Costituzione, al secondo comma, prevede che quando il Governo adotta decreti-legge "in casi straordinari di necessità e di urgenza" le Camere devono convertirli in legge entro 60 giorni. La Corte Costituzionale ha più volte bocciato quelle norme dei decreti-legge che nulla avevano a che fare con l'oggetto del d.l. stesso, soprattutto se aggiunte durante la fase di conversione in legge, poiché estranee rispetto ai confini tracciati dal decreto originario. 
L'innesto di norme nuove, infatti, può avvenire solo "a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione", poiché altrimenti il Parlamento farebbe un "uso improprio" del suo potere di conversione (Corte Cost., sent. n. 22/2012). Tant'è vero, ricorda la Corte, che il regolamento della Camera prevede che in fase di conversione "Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge" (art. 96-bis, comma 7).
Nel caso della Fini-Giovanardi, il decreto 272/2005 era stato varato in occasione delle Olimpiadi di Torino, per far fronte a tale evento straordinario, e prevedeva - ad esempio - norme anti-terrorismo, assunzioni di poliziotti, finanziamenti per i Giochi e altre misure che non potevano essere adottate col procedimento legislativo ordinario in Parlamento, molto lungo e farraginoso.
La Corte, pertanto, ha solo rilevato un importante vizio "procedurale" perché oggettivamente le norme sulle droghe, inserite in sede di conversione, non rispettavano i requisiti richiesti dalla Costituzione in ordine al procedimento di conversione. Sul merito, cioè sulla correttezza o meno del considerare uguali tutti i tipi di stupefacenti, la Consulta non ha espresso alcun parere: chi ha scomodato la Costituzione e la Corte per legittimare la propria opinione sulle droghe, in un senso o nell'altro, di certo non ha reso un bel servizio alla nostra Carta fondamentale e ai giudici che ne garantiscono il rispetto.

P.S.: la mia opinione sulla Fini-Giovanardi non è certo positiva, avendo già parlato (seppure en passant) degli effetti assurdi che ha sul sistema carcerario. La mia, quindi, non è una presa di posizione a favore di quel provvedimento, che reputo anzi criticabile su molti fronti, ivi compreso quello dell'equiparazione tra le varie droghe. Il senso di questo articolo è spiegare da un punto di vista giuridico-costituzionale una sentenza che molti interpretano (spesso in mala fede) in modo totalmente errato solo per attaccare la Consulta o, al contrario, per portare i giudici costituzionali dalla parte dell'antiproibizionismo.

venerdì 24 gennaio 2014

Esposti, denunce, querele e scritti anonimi: differenze e validità degli atti

Il cittadino che intende rivolgersi alla giustizia per tutelare i propri diritti dovrebbe sempre chiedere consigli ad un legale; tuttavia, specie quando si tratta di questioni di minore importanza, la tentazione di agire da soli è forte. Perciò, quando si prendono carta e penna è necessario sapere almeno la forma migliore per entrare in contatto con gli organi competenti, poiché spesso si fa confusione nel linguaggio comune tra esposto, denuncia e querela: ciascuno di questi atti, invece, ha presupposti diversi e a volte può anche sottintendere un "fine diverso", cioè una tutela più o meno ampia richiesta alla giustizia.
Cominciamo dall'atto forse più informale tra quelli citati, ovvero l'esposto. Lo scopo di tale atto è quello di risolvere bonariamente una lite fra privati con l'intervento delle Forze dell'Ordine: serve quindi a sollecitare la mediazione dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, che può convocare le parti per dirimere la contesa e redigere anche un verbale.
E' importante sapere che in genere si dovrebbe usare lo strumento dell'esposto solo per fatti che non costituiscono reato, come quelli che possono riguardare piccole questioni condominiali; infatti, se ciò che si espone configura un reato procedibile d'ufficio la P.S. deve informare l'Autorità Giudiziaria: sono reati di questo genere tutti quelli che non sono perseguibili a querela di parte, cioè per espressa volontà della persona offesa che chiede la punizione del colpevole. Converrà essere cauti, pertanto: non sempre chi espone un fatto vuole un intervento così duro come quello della giustizia penale, ma proprio per questo è bene consultare un legale per sapere le conseguenze di ciò che si sta per raccontare.
Si intuirà, da quanto detto, che la denuncia è l'atto con il quale il privato porta a conoscenza della giustizia un reato procedibile d'ufficio del quale ha notizia: salvo alcuni gravi reati, in genere la denuncia è facoltativa e non è vincolata a limiti di tempo.
La querela è invece un atto con il quale la vittima di un reato non procedibile d'ufficio non solo espone che è stato commesso un illecito penale, ma chiede anche la punizione del colpevole. Ecco perché spesso gli avvocati usano la locuzione "denuncia-querela": si denuncia il fatto (con la "notitia criminis", cioè notizia di reato), ma si chiede anche la punizione del suo presunto autore; se contestualmente ci sono più fatti, alcuni procedibili d'ufficio e altri solo dietro querela, l'atto presentato servirà a coprire tutte le fattispecie dal punto di vista procedurale. In termini non tecnici, si può dire che con la querela il destino del colpevole dipende dal querelante, che infatti entro certi limiti può anche ritirare la querela; invece con la denuncia la giustizia seguirà il proprio corso poiché il reato è procedibile d'ufficio. La querela è infatti anche una "condizione di procedibilità", cioè un requisito la cui mancanza determina l'impossibilità di punire il presunto autore del reato.
Trattandosi di un atto abbastanza complesso, è sempre meglio sporgere querela per mezzo di un legale, poiché spesso risulta difficile tradurre i fatti di cui si è stati vittima in ipotesi di reato: per esempio, la vittima può non sapere che alcuni fatti che sembrano secondari costituiscono invece delle aggravanti che rendono il reato procedibile anche d'ufficio. La querela può essere presentata al Pubblico Ministero o ad un ufficiale di Polizia Giudiziaria, anche oralmente; attenzione ai tempi, poiché per quasi tutti i reati la querela va presentata entro tre mesi da quando la vittima ha avuto notizia del reato.
Chiarite le differenze fra i tre atti, chiudo con un accenno ad una prassi purtroppo molto in voga nel nostro Paese, quella di inviare alle Autorità scritti anonimi sotto varie forme (esposti, denunce etc.) per segnalare presunti reati. 
Tendenzialmente gli scritti anonimi non devono essere presi in considerazione dalla giustizia penale: l'art. 333 c.p., in particolare, afferma che delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso. A maggior ragione ciò dovrebbe valere per la querela, non essendo individuata la vittima che chiede la punizione del colpevole.
Gli scritti anonimi, quindi, non impongono alcun obbligo di procedere, anche se vanno fatte due precisazioni.
La prima è che una denuncia o una querela anonime possono costare al loro autore (se individuato) una condanna per calunnia, se egli incolpa volontariamente un innocente o simula a carico di quest'ultimo le tracce di un reato.
La seconda è che la denuncia anonima, come detto, non obbliga l'Autorità Giudiziaria ad iscrivere la notizia di reato nell'apposito registro: malgrado ciò, dato che gli organi di giustizia e la Polizia Giudiziaria possono svolgere indagini di propria iniziativa quando vengono a conoscenza di fatti penalmente rilevanti (anche leggendo un'inchiesta giornalistica, per esempio), è chiaro che tali organi potranno avviare un'indagine autonomamente, specie se gli scritti anonimi sono ben circostanziati o provenienti (presumibilmente) da persone diverse.


lunedì 6 gennaio 2014

L'azione penale obbligatoria: cos'è e perché è importante per il cittadino "semplice"

L'articolo 112 della Costituzione stabilisce che "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale", ma da qualche anno torna ciclicamente l'ipotesi di modificare questa norma per trasformare l'azione penale da obbligatoria a discrezionale. Il tema può sembrare interessante solo al "circolo dei giuristi" e agli addetti ai lavori, ma forse da un punto di vista procedurale non c'è norma più importante per il cittadino che sia vittima di un reato. Vediamo perché.
L'obbligo dell'azione penale, tradotto in parole povere, significa che il magistrato (PM) venuto a conoscenza di una notizia di reato (es.: con una denuncia) deve compiere ogni atto di indagine utile per valutare la fondatezza di tale notizia, per stabilire cioè se la legge penale sia stata violata e chi debba eventualmente risponderne.
Se ritiene fondata la notizia, il Pubblico Ministero chiederà il rinvio a giudizio del presunto autore del reato, altrimenti opterà per la richiesta di archiviazione.
Questo meccanismo assicura soprattutto l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.): se l'azione penale fosse discrezionale, solo il cittadino "ricco" potrebbe permettersi un buon avvocato per convincere l'Autorità Giudiziaria a procedere. Mi spiego con un esempio: in Francia esiste un sistema "misto" per alcuni reati meno gravi, poiché il magistrato che riceve una denuncia può decidere di non procedere per ragioni di opportunità, di politica criminale e così via. Per "costringerlo" a proseguire e indagare, la vittima del reato deve formulare una querela con costituzione di parte civile, ma deve pure pagare una cauzione: è facile immaginare che un tale meccanismo può ingenerare discriminazioni.
Infatti, in un caso che qualche anno fa fece discutere molto, un cittadino francese si è rivolto alla Corte Europea dei diritti dell'uomo denunciando l'imposizione di una cauzione che non poteva permettersi, e la Corte ha riconosciuto che a quel cittadino era stato negato l'accesso alla giustizia (diritto fondamentale dell'uomo). Del resto quando sentiamo che negli USA un personaggio famoso viene scarcerato pagando una cauzione di milioni di dollari, la nostra coscienza ci suggerisce che lo stesso diritto non sarebbe stato assicurato ad una persona normale e non abbiente.
Altro esempio: una donna viene costantemente perseguitata dall'ex con appostamenti, minacce velate, comportamenti aggressivi e così via, ma per paura non si rivolge alla giustizia. E' giusto o sbagliato, secondo voi, garantire comunque la difesa della donna anche se il magistrato viene a conoscenza dell'accaduto da terzi e la donna, per sudditanza nei confronti dell'aggressore, non "insiste" nel pretendere la punizione dell'ex?
Qualcuno può obiettare: ma anche se il PM ha l'obbligo di fare le indagini non è detto che le faccia bene, per cui è possibile che chieda l'archiviazione e che la vittima resti priva di tutela. In realtà il codice di procedura penale, proprio per garantire pienamente il rispetto degli artt. 3 e 112, prevede un importante meccanismo: dato che il PM formula la richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari (GIP), quest'ultimo ha un forte potere di controllo sulla richiesta e può sia ordinare al PM di compiere nuove indagini, sia imporgli di formulare l'imputazione, cioè di promuovere l'accusa in giudizio riconoscendo la fondatezza della notizia di reato (art. 409 c.p.p.).

Come si vede, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale è determinante per garantire un eguale accesso alla giustizia, impedendo che la persecuzione dei reati sia dettata da scelte ideologiche, religiose, politiche o comunque da ragioni diverse dalla necessità di assicurare il rispetto della legge: perché, allora, la politica tenta da anni di mettere mano a tale principio? La risposta, senza nemmeno spremersi troppo le meningi, è fin troppo facile...

giovedì 2 gennaio 2014

Il Porcellum "incostituzionale": come stanno le cose?

Qualche giorno fa la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legge elettorale 270/2005, il cosiddetto "Porcellum", dichiarandone la parziale illegittimità su due fronti: da un lato, la Consulta ha dichiarato incostituzionali le norme "che prevedono l'assegnazione di un premio di maggioranza - sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica - alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione". Dall'altro, ha bocciato "le norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali 'bloccate', nella parte in cui non consentono all'elettore di esprimere una preferenza''.
Le motivazioni della Corte saranno note presto e, quindi, è prematuro ogni commento sulla decisione; non è invece prematuro qualche commento sulle reazioni avute da alcuni esponenti del Parlamento. Alcuni dicono: sono illegittimi solo i deputati e senatori eletti col premio di maggioranza.
Altri affermano: il Parlamento è tutto illegittimo, si faccia una nuova legge elettorale e si vada al voto.
I più catastrofisti incalzano: 
l'attuale Parlamento è illegittimo e di conseguenza è illegittimo ogni atto emanato dai due rami (Camera e Senato), in particolare la rielezione di Napolitano, la fiducia accordata al Governo etc. 
Io direi: calma, ragioniamo col buon senso e con la Costituzione in mano.
Primo: il premio di maggioranza, argomento sollevato soprattutto dal MoVimento 5 Stelle che ha pubblicato i nomi dei parlamentari eletti grazie a tale meccanismo. In realtà, la legge è stata dichiarata incostituzionale anche per le liste bloccate, per cui volendo essere coerenti sarebbero "illegittimi" anche quelli che vorrebbero defenestrare i colleghi eletti col premio di maggioranza. Non si capisce perché non si dimettano, visto che (ragionando come loro) sono "illegittimi" esattamente come gli altri, anche se per un altro motivo.
Secondo: quelli che dicono di andare a nuove elezioni, o con una nuova legge da approvare o con il Porcellum stesso, non si ricordano di un piccolo particolare. Se le Camere non sono legittime, come fanno a fare una legge elettorale legittima? E se il Porcellum non è legittimo, dove sarebbe la legittimità del nuovo Parlamento?
Terzo: la Costituzione, citata a sproposito da molti parlamentari che forse l'hanno letta ma non capita, afferma che quando la Corte Costituzionale "dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione" (art. 136). Si dice, tecnicamente, che la abrogazione avviene "ex nunc" ("da ora", ossia dal momento della pronuncia) e non retroagisce "ex tunc" ("da allora", cioè all'indietro, fino all'entrata in vigore della norma).
Per fare un esempio, se Tizio viene condannato e incarcerato per il reato (immaginario) di "starnuto in pubblico" nel 2013 e la Corte abroga tale reato nel 2014, gli effetti della condanna cesseranno nel 2014 ma l'atto in sé della condanna non è "illegittimo" perché al momento della pronuncia la norma di legge era costituzionalmente legittima. Allo stesso modo, erano legittimi gli atti che da quella norma derivavano: una denuncia, le indagini, il rinvio a giudizio, il processo...e così via fino alla condanna. Quindi, la elezione dei parlamentari era legittima.
In caso contrario, non ci sarebbe via d'uscita: il Presidente della Repubblica non potrebbe sciogliere le Camere perché queste erano illegittime e illegittimamente lo hanno eletto; il Governo non potrebbe far nulla (nemmeno in via ipotetica) perché ha ottenuto la fiducia da un Parlamento illegittimo e quindi non potrebbe legittimamente emanare atti...per non parlare delle precedenti elezioni: che ne sarebbe, infatti, delle leggi e degli atti emanati dai Parlamenti eletti nel 2006 e 2008 col Porcellum? Tutti illegittimi?
Quarto: la Consulta stessa ha affermato che "il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali". Questa affermazione della Corte è stata totalmente ignorata dai sostenitori della teoria dell'illegittimità, ma in realtà risolve il problema perché dice ai parlamentari: fate una nuova legge, stavolta rispettosa della Costituzione, ma fatela perché avete questo potere di "scelta politica". Non si capisce perché la Corte dovrebbe riconoscere al Parlamento tale potere legislativo solo in ordine alla legge elettorale e non anche per ogni altro atto.
Per cui i Parlamentari, anziché litigare su chi sia più santo e immacolato, si diano da fare: li paghiamo per questo.