venerdì 31 maggio 2013

Riforma del condominio: cosa cambia

Tra pochi giorni (il 18 giugno) entrerà in vigore la riforma di alcune norme sul condominio, varata sul finire dello scorso anno e finalizzata a rendere più armonica una materia in cui le poche regole fissate nel codice civile avevano dato luogo a interpretazioni spesso opposte da parte dei Tribunali.
Com'è noto, l'istituto del condominio è concepito soprattutto per dettare una disciplina sulle parti comuni di un edificio all'interno del quale ci sono più unità immobiliari, e la legge n. 220/2012 si è in primo luogo occupata di individuare meglio le parti comuni mediante un elenco che da un lato non è esaustivo, ma dall'altro mette un po' d'ordine in una casistica abbastanza caotica elaborata - come accennato - nei Tribunali.
La legge disciplina, inoltre, un fenomeno sempre più diffuso e cioè quello dei "condomini orizzontali", cioè di quelle realtà formate da più condomìni (complessi residenziali, "supercondomini" etc.) che a loro volta presentano delle parti comuni.
Ma per quanto riguarda più da vicino la vita di tutti i giorni del condòmino, va innanzitutto ricordata la nuova possibilità per quest'ultimo - già riconosciuta da alcuni Tribunali - di distaccarsi dall'impianto di riscaldamento (o condizionamento) condominiale, pur continunando a contribuire alle spese di manutenzione straordinaria, manutenzione e messa a norma.
Di particolare interesse è anche la nuova figura dell'amministratore, prevista obbligatoriamente quando i condòmini sono più di 8, mentre in precedenza ne bastavano 4. Una figura che sarà più qualificata rispetto al passato: l'amministratore dovrà frequentare specifici corsi di formazione (a meno che non abbia già un anno di esperienza), dovrà avere un'assicurazione professionale e - soprattutto - sarà tenuto a vari obblighi di informazione verso i condòmini in merito alla gesione finanziaria del condominio, tanto da dover tenere un conto corrente condominiale controllabile dai condòmini. Particolare curioso e "moderno" è che l'assemblea potrà chiedergli l'apertura e la gestione di un sito internet del condominio, sempre consultabile dai condòmini che avranno dunque la possibilità di visionare vari documenti riguardanti la gestione.
La riforma tenta quindi di tutelare maggiormente la trasparenza e l'efficienza dell'operato dell'amministratore, tanto da prevedere (per i condomìni con almeno 12 unità immobiliari) un consiglio di condominio formato da almeno 3 condòmini, con funzioni consultive e di controllo verso l'amministratore.
Novità importanti riguardano la modifica di alcuni quorum per la regolare costituzione dell'assemblea e per le sue deliberazioni, ispirate alla necessità di rendere più snella ed efficace l'attività dell'organo deliberativo.
Infine, una mezza rivoluzione che ha fatto e farà molto discutere è il divieto di inserire nel regolamento condominiale norme che impediscano di tenere animali da compagnia.
In conclusione la riforma, pur con le sue inevitabili carenze, dovrebbe contribuire a rendere più facile la vita di condominio, mediante un miglior funzionamento dell'assemblea, una maggior professionalità dell'amministrazione e una serie di norme a tutela dei condòmini. Vedremo nei prossimi anni se la nuova disciplina sarà all'altezza delle molte aspettative.

mercoledì 22 maggio 2013

Ecco perché la legge sullo "stalking" non funziona


Il dibattito sulla violenza verso le donne torna purtroppo ciclicamente, riproponendo ogni volta l’attenzione sul cosiddetto “stalking”; pertanto è bene analizzare alcuni punti critici della attuale legislazione italiana in materia, in gran parte dettata dal decreto-legge n. 11/2009. Tale atto normativo ha introdotto l’art. 612-bis nel codice penale sotto la denominazione “atti persecutori” e una serie di misure anche extrapenali, come l’ammonimento dello "stalker" da parte del Questore.
I primi problemi emergono già nella formulazione dell’art. 612-bis. Schematizzando, lo “stalker” è colui che con condotte ripetute minaccia o molesta taluno in modo tale da determinare uno di questi eventi: a) un perdurante e grave stato di ansia o di paura; b) un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; c) una alterazione delle abitudini di vita della vittima.
Prima domanda: perché il legislatore ha vincolato la punibilità dello stalker alle condizioni psicologiche della vittima, anziché punire direttamente le azioni del persecutore? In poche parole, lo stalking esiste solo se la vittima dimostra uno degli eventi sopra descritti, il che a volte può essere molto difficile. In mancanza di tale prova, i ripetuti atti dello stalker non seguiti da uno di quegli eventi possono essere declassati ai reati di minaccia o di molestia, che il nostro codice punisce in modo molto ma molto blando.
Ma poi perché lo stato di ansia o di paura deve essere “perdurante” e “grave”? La condotta dello stalker non è già grave in sé? E chi stabilisce la gravità dell’ansia, dato che si tratta di un concetto estremamente variabile in base al carattere della vittima? 
Oppure chi stabilisce se il timore per l’incolumità è “fondato”, dato che anche questo aspetto è molto vago? E ancora: la “relazione affettiva” che deve legare la vittima a una terza persona quando sussiste? Se, ad esempio, la vittima conosce una nuova persona dopo la fine della relazione con lo stalker, quand’è che la semplice conoscenza si trasforma in “relazione affettiva”?
A questo punto, è inutile soffermarsi sul terzo evento, quello dell’alterazione delle proprie abitudini di vita come conseguenza delle condotte dello stalker, poiché dovrebbe essere chiaro che anche questo è un concetto molto fumoso e difficile da dimostrare.
Il risultato è che la vittima deve sopportare un onere probatorio molto pesante: deve dimostrare gli atti di molestia o minaccia, deve dimostrare che sono reiterati e, inoltre, deve dimostrare che sono causalmente finalizzati a determinare l'evento prescritto dalla legge e, ovviamente, deve dimostrare l'esistenza dell'evento. La vittima che, ad esempio, è in un forte stato di soggezione psicologica ma non in uno stato di perdurante e grave ansia certificato (da uno psicologo ad esempio), che area di tutela può richiedere alla legge?
Considerate, poi, che la vittima di stalking raramente ha le conoscenze adeguate per "inquadrare" formalmente ciò che sta subendo di fronte alle Forze dell'ordine o alla Magistratura, per cui dovrà chiedere assistenza legale ad un avvocato per non rischiare di riportare i fatti in un modo troppo vago. E' solo grazie ad un avvocato che i fatti e le emozioni della vittima possono trovare una "traduzione" dal punto di vista legale e soddisfare tutti i requisiti richiesti da una norma così confusa; il rischio è quindi l'impossibilità di procedere verso lo stalker per la difficoltà di fornire prove adeguate.
Ciò ci porta ad un ulteriore problema: la normativa è ancor più lacunosa sugli aspetti procedurali. Il reato è infatti punibile, quando non ci sono aggravanti, su querela della vittima: vuol dire che lo stalker non può essere punito se non è la vittima a chiederlo espressamente, non basta la denuncia di un genitore o un amico. Un’assurdità, visto che molte volte la pressione psicologica esercitata dallo stalker spinge la vittima a non rivolgersi alle istituzioni. La mancanza di querela esclude peraltro l’arresto dello stalker, che in generale non è nemmeno obbligatorio; se ci aggiungiamo che non è consentito neppure il fermo dell’indiziato, il quadro è quasi completo.
Altro aspetto critico è che la pena massima (sempre in assenza di aggravanti) è la reclusione fino a quattro anni: basta un discreto avvocato per ottenere una pena inferiore ai tre anni, per esempio scegliendo un rito alternativo (rito abbreviato o patteggiamento), e lo stalker può chiedere l’affidamento ai servizi sociali evitando il carcere. Se oltre ad un rito alternativo, poi, si ottiene anche una sola attenuante (per esempio le attenuanti generiche: lo stalker ha collaborato nel processo, non ha precedenti, ha mostrato prima nel processo una seria propensione a non ripetere le sue condotte etc.), si può scendere sotto i due anni di reclusione e c’è addirittura la sospensione della pena. E molti centri antiviolenza osservano che uno stalker su tre torna a perseguitare la vittima perfino dopo la condanna... figuriamoci in caso di impunità.  
Ma qui rischiamo di andare in un altro campo, ben più esteso, che riguarda il malfunzionamento del sistema penale in genere… e quindi per il momento è meglio fermarsi, almeno per non infierire sulle vittime. 

martedì 14 maggio 2013

Quando il legislatore si esprime in Aramaico: cos'è "l'incidente probatorio"?


Nella cronaca giudiziaria i telegiornali e la carta stampata riportano spesso un’espressione, “incidente probatorio”, che sembra un incrocio tra la mitica supercazzola di Ugo Tognazzi e la lingua segreta del popolo elfico. Proveremo a spiegare cos'è in questo post, sperando di chiarire le idee a chi si domanda cosa diamine stia dicendo il giornalista di turno quando pronuncia l'oscura formula.

Dunque, il procedimento penale è diviso in varie parti, la prima delle quali è costituita dalle indagini preliminari. Tale fase serve a verificare se la notizia di reato (ad es. una denuncia) è fondata e se ci sono elementi sufficienti a sostenere un’accusa nel dibattimento, cioè nel processo vero e proprio, che ha invece lo scopo di scoprire se l'imputato di un reato è colpevole o innocente.
Nel dibattimento le parti (accusa e difesa soprattutto) esaminano i testimoni, presentano perizie e controbattono con altre perizie, valutano documenti e così via. Tutto ciò avviene nel contraddittorio, cosa che tendenzialmente manca nella fase delle indagini preliminari. Proprio per la mancanza di contraddittorio, di regola gli elementi raccolti durante le indagini non concorrono a formare il convincimento dei giudici sulla colpevolezza o sull'innocenza di chi è sospettato di aver commesso un reato; ciò è dimostrato anche dal fatto che nelle indagini c’è un Giudice per le indagini preliminari (il “gip”), mentre durante il dibattimento c’è un altro giudice, che ha la mente “sgombra” da ciò che è stato raccolto nella fase investigativa.
Tale struttura del procedimento penale garantisce il principio di immediatezza tra l’assunzione della prova e la decisione: i giudici del dibattimento devono convincersi sulla validità, la portata e il significato di una prova proprio grazie a ciò che emerge nel contraddittorio tra le parti e non su ciò che viene raccolto nelle indagini da Polizia, Carabinieri, Pubblico Ministero etc.
Tuttavia in molti casi non è possibile seguire tale struttura: se una persona sentita durante le indagini non può poi testimoniare in giudizio, ad esempio per una malattia, come si fa? E come si fa se bisogna analizzare una sostanza immediatamente, perché nell’attesa del dibattimento si può deteriorare? 
Ecco cos’è l’incidente probatorio: è un’udienza che si svolge nel contraddittorio delle parti solitamente durante le indagini preliminari, quindi prima del processo, e nella quale si assumono le prove nelle stesse forme prescritte per il dibattimento. Per cui un testimone, ad esempio, viene sentito con l’esame incrociato: nell’incidente probatorio, ciò che dice il testimone non concorre semplicemente a formare quegli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma diventa parte della decisione dei giudici sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. L’unica differenza col dibattimento è che l’udienza in questione si svolge senza pubblico, cioè in camera di consiglio.
A questo punto vi domanderete: ma perché questo strano nome, “incidente probatorio”? Perché ha la caratteristica di essere un’eccezione alla rigida regola della separazione tra indagini e dibattimento, quindi è un “incidente” nella struttura del procedimento penale, e in più ha valore “probatorio”, valore che normalmente manca agli atti delle indagini. Ecco svelato l'arcano!

venerdì 3 maggio 2013

Prima il nome o prima il cognome? Mario Rossi vs. Rossi Mario

In questo post vorrei occuparmi di un argomento "leggero" che non coinvolge soltanto la materia del diritto, ma anche la lingua italiana, il galateo e la semplice curiosità che ognuno dovrebbe coltivare: quando si scrive o ci si firma, va messo prima il nome o prima il cognome? E la legge dice qualcosa al riguardo?
Nella vita di tutti i giorni molti usano formule tipo "Rossi Mario" per presentarsi, per firmarsi o per scrivere il proprio norme in una lettera. Addirittura, durante un'esperienza di lavoro mi è capitato di sentir dire da una persona, con una sicurezza quasi matematica, che nei documenti ufficiali andrebbe messo sempre prima il cognome, anche quando si narra un fatto o ci si firma, solo perché si tratta di un documento pubblico (ad es.: una richiesta amministrativa o una comunicazione).
Ma come stanno davvero le cose? Le regole, tanto quelle della lingua italiana quanto quelle del diritto italiano, sono univoche: prima il nome e poi il cognome.
Partiamo dalle regole della nostra lingua: nell'antica Roma una persona veniva individuata, nell'ordine, mediante il praenomen, corrispondente al nostro nome; mediante il nomen, che indicava la gens di appartenenza; infine, mediante il cognomen, che era una sorta di soprannome dato all'individuo per evidenziare aspetti caratteristici suoi o della sua famiglia. Proprio per questa origine in lingua italiana è più corretta la formula nome-cognome.
Come ogni regola, anche questa ha le sue eccezioni: quando il nome è compreso in un elenco alfabetico è preferibile anteporre il cognome per ovvie ragioni. Secondo alcuni, quando si compila un documento con la dicitura "Io sottoscritto..." andrebbe anteposto il cognome, ma questa usanza nasce più che altro dal fatto che la burocrazia dello Stato, nel redigere moduli prestampati, di solito richiede la formula cognome-nome per favorire la catalogazione degli atti ordinati alfabeticamente. Per cui se il modulo non lo richiede espressamente è corretta la formula opposta, con buona pace dell'impiegato convinto "senza se e senza ma" che dobbiate scrivere Rossi Mario; formula, è bene ricordarlo, totalmente sbagliata nel firmarsi, dato che la firma va sempre apposta nella sequenza nome-cognome.
Tale sequenza ha peraltro precisi riferimenti legislativi: l'art. 6 del codice civile prevede che "nel nome si comprendono il prenome e il cognome" (notate l'ordine), mentre varie norme in materia di stato civile (v. DPR 396/2000) citano in ordine prima il "prenome" e poi il "cognome" (artt. 11, 29, 51 e molti altri).
Perfino le norme processuali italiane, com'è noto molto bizantine e formali, riportano la sequenza nome-cognome per gli atti (v. art. 163 c.p.c., o 110 c.p.p.: addirittura quest'ultimo prescrive tale formula per la firma, confermando quanto dicevamo sopra).
Per concludere, dunque, ricordatevi (e ricordate a chi pensa il contrario) che tanto le regole linguistiche quanto quelle di legge propendono per la bellissima tradizione italiana di anteporre il nome al cognome.
Ve lo dice Nalli Carlo! :-)