giovedì 13 giugno 2013

Numero chiuso all'università, tra Costituzione e false leggende

Sulla questione del numero chiuso nelle università si sentono molte inesattezze, spesso accompagnate da argomentazioni giuridiche (di natura costituzionale, per lo più) sguarnite di ogni logica e prive di riscontri nelle norme della nostra Carta fondamentale. Sono sempre stato un sostenitore della necessità di consentire l’accesso agli studi universitari solo a chi davvero lo merita, anche prima di cominciare il mio percorso universitario, per cui vorrei dedicare questo articolo ad alcuni luoghi comuni su tale argomento.
Il primo luogo comune è quello secondo cui la Costituzione garantirebbe il diritto allo studio e l’accesso all’università a chiunque, per cui i test d’ingresso e (più in generale) i meccanismi di pre-selezione per l’iscrizione alle università sarebbero  incostituzionali. Ma le cose stanno davvero così? L’art. 33 della Costituzione è talmente cristallino che sarebbero superflui ulteriori commenti: il quinto comma sancisce che “E’ prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale”. E’ per questo che si fanno gli esami di maturità o altri esami alla fine di alcuni cicli scolastici, anche se – va detto – sono per lo più esami finali e tesi ad accertare se lo studente ha acquisito ciò che gli è stato insegnato fino a quel punto, non se è “portato” per il grado successivo, cosa che invece è considerata naturale in altri Paesi (specie di tradizione anglosassone) e che sta alla base proprio dei test d’ingresso per le facoltà a numero chiuso.
Ma c’è di più: l’art. 34 della nostra Carta distingue l’istruzione, “aperta a tutti”, dai “gradi più alti degli studi”. La scuola, secondo il primo comma di tale articolo, è aperta a tutti e l’istruzione inferiore, “impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Si parla dunque di “scuola”, non di “università”: anche l’articolo precedente differenzia tra scuole ed università o comunque altri “istituti di alta cultura” e le accademie.
Il terzo comma contiene un principio importantissimo: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Se anche “i gradi più alti degli studi” fossero aperti a tutti come dicono i contrari al numero chiuso, perché mai i nostri Padri costituenti avrebbero inserito questa precisazione? La ragione è facilmente intuibile: perché università, istituti di alta cultura e accademie non sono per tutti, ma per  i “capaci e meritevoli”. Se il numero chiuso fosse davvero incostituzionale, perché nella Costituzione c’è questo riferimento alle capacità e al merito? Per gioco, forse?
La costituzionalità del numero chiuso è stata peraltro sancita anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in base a tali princìpi: del resto immagino che i giudici della Corte vengano da tradizioni in cui i test d’ingresso sono una cosa normale. Da notare, peraltro, che la Corte si è pronunciata a seguito di un ricorso presentato anche da uno studente che da otto anni non dava esami universitari… tanto per capire chi è che bivacca nelle università italiane.
Ma al di là delle considerazioni giuridiche l’università aperta a tutti non risolve i problemi che i contrari al numero chiuso denunciano, facendo  leva (giustamente, va riconosciuto) su alcune storture tutte italiane. Ne cito un paio.
Le raccomandazioni: è vero che spesso i test d’ingresso alle università sono contestati da molti perché favorirebbero i “figli di”. Ma è anche vero che senza il numero chiuso i “figli di” entrerebbero lo stesso e potrebbero facilmente superare, grazie alle raccomandazioni, gli “anonimi”. Basterebbe favorirli agli esami scritti (con lo stesso meccanismo dei test d’ingresso) o fare domande “giuste” agli orali, ed ecco che il povero anonimo ha la strada di nuovo bloccata. Anzi: in un sistema di concorrenza selvaggia tra 1000 studenti (e non solo 200), è chiaro che i baroni avrebbero un interesse ancora maggiore a spingere i “protetti”.
La didattica: università intasate da studenti comportano sovraffollamento durante le lezioni, impossibilità di accedere ai laboratori informatici e alle strutture di vario genere, difficoltà nei rapporti con i professori (per i ricevimenti, per chiedere informazioni sul programma, per avere spiegazioni etc.) e molti altri inconvenienti che chiunque abbia frequentato un’università del genere conosce bene. Ebbene, il “figlio di” può contare sul genitore per ogni chiarimento, probabilmente non ha bisogno di strutture particolari perché le ha già dentro casa (si pensi alle attrezzature mediche, ai computer super-moderni e pieni di programmi che solo alcuni professionisti hanno); in più, dato che in un’università sovraffollata magari non è richiesta nemmeno la frequenza obbligatoria alle lezioni (proprio per diminuire il numero di studenti frequentanti), il “figlio di” potrà comodamente studiare a casa con l’aiuto di mamma o papà, mentre il nostro “anonimo” dovrà seguire ogni lezione in aule piene di confusione per capire qualcosa.
La preparazione: l’accesso libero comporta giocoforza un livellamento verso il basso della preparazione, con la conseguenza che escono troppi laureati senza un’adeguata conoscenza non solo della materia che hanno studiato, ma anche della lingua italiana e del mondo in generale. Lo dico anche contro i miei interessi, visto che ho studiato giurisprudenza (facoltà affollatissima) e ho sostenuto l’esame di Stato per avvocati come “anonimo”, senza saperne ancora l’esito. Potrei essere stato bocciato, forse per demerito o forse perché non “figlio di”, ma la mia opinione sul punto non cambia.
E poi, tanto per concludere: è forse un caso che quasi tutte le università italiane considerate migliori nelle classifiche internazionali sono quelle che adottano il numero chiuso?