martedì 5 novembre 2013

Il mobbing sul lavoro: la tutela nell'ordinamento vigente

La legge italiana non disciplina in modo specifico il fenomeno del “mobbing”, cioè quelle forme di vessazione, prevaricazione e pressione psicologica compiute indebitamente nei confronti di una sola persona, solitamente sul luogo di lavoro. In mancanza di tale disciplina, le vittime di mobbing devono quindi affidarsi alla versione elaborata nei tribunali, chiaramente frammentaria perché ciò che può apparire vessatorio in un contesto lavorativo e sociale può non sembrare tale in un altro.
Leggendo le varie sentenze rese dai giudici italiani sul tema, si può affermare che la vittima di mobbing ha più chance di ottenere tutela sul piano civile, e quindi sotto forma di risarcimento, mentre resta più vaga e debole la protezione offerta dal diritto penale.
In ambito civile, le varie ipotesi di indebita pressione psicologica o anche fisica sul luogo di lavoro sono state ricondotte nella fattispecie di cui all’art. 2087 c.c.
L’art. 2087 stabilisce infatti che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Secondo la Cassazione, quindi, grava sul datore di lavoro un obbligo specifico di proteggere l’integrità psico-fisica del lavoratore (Cass., sent. n. 4184/2006).
Ciò anche alla luce di quanto affermato dalla sentenza n. 399 del 1996 della Corte Costituzionale: secondo quest’ultima, il diritto alla salute viene salvaguardato anche mediante condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo diritto essenziale, di rilevanza costituzionale.
Per cui l’art. 2087 non abbraccia soltanto le ipotesi di mobbing, ma ogni tipo di situazione che minaccia o lede il diritto soggettivo del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi (Cass., sent. n. 4840/2006).
Tale orientamento ha consentito addirittura di inquadrare nell’ipotesi dell’art. 2087 quei casi in cui i comportamenti vessatori, pur non unificati da un disegno unitario, abbiano avuto l’effetto di mortificare psicologicamente il lavoratore, causandogli un danno: tutto ciò, ovviamente, fornendo la prova che il datore di lavoro sia venuto meno all’obbligo di attivarsi per tutelare la personalità del lavoratore.
Sul piano penale, come dicevamo, la tutela è più sfumata: ferma restando la possibilità di punire i singoli atti di prevaricazione (ingiurie, molestie, minacce etc.), manca una figura di reato che reprima quelle forme di persecuzione espresse concretamente con tali atti, ma legate da uno stesso intento vessatorio. Ciò pone un problema non di poco conto, perché i reati di ingiuria, molestia o minaccia sono puniti in modo assai blando.
In alcuni casi, tuttavia, le ipotesi di mobbing sono state ricondotte al reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, previsto dall’art. 572 c.p., recentemente oggetto di una mini-riforma nel 2012: prima di tale riforma, mancava un riferimento alla “convivenza” (es.: coppie di fatto), ma già si estendeva il concetto di famiglia alle forme di coabitazione simili. Sulla base di ciò, la Cassazione ha ammesso l’applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche alle ipotesi di mobbing sul luogo di lavoro purché il contesto lavorativo si caratterizzi per modalità, abitudini, affidamento e fiducia tipici della comunità familiare (Cass., sent. n. 12517/2012; Cass., sent. n. 16094/2012).
In sostanza, la possibilità di reprimere penalmente il mobbing come una particolare forma di maltrattamento contro un convivente è legata al requisito della para-familiarità della relazione lavorativa, che dovrà essere provato dalla vittima dimostrando la particolare forma di organizzazione del luogo di lavoro, la qualità delle relazioni e l’informalità delle stesse, le consuetudini della vita lavorativa e così via.
Se dunque una minima tutela penale esiste,  è evidente che la vittima sopporta un onere della prova non certo leggero, e che ad ogni modo resta priva di ogni protezione una vasta area di episodi e situazioni: si pensi ai casi di dequalificazione o demansionamento della vittima per ottenere le sue dimissioni, o a quei casi in cui atti in sé legittimi (es.: richiami disciplinari, comunicazioni) siano utilizzati per uno scopo diverso dal normale, solo per mortificare il dipendente.