martedì 25 febbraio 2014

Il defunto lascia debiti: cosa può fare l'erede?


La posizione di erede non comporta sempre e solo vantaggi: pensiamo al caso di chi è chiamato a succedere ad una persona che in vita ha accumulato molti debiti. Cosa si deve fare in questi casi? In questo post cercheremo di fornire una risposta rapida su alcune questioni fondamentali, fermo restando che la materia delle successioni è molto complessa e ogni caso meriterebbe un apposito approfondimento.
Il primo aspetto da tenere in mente è che l'erede non può rinunciare all'eredità una volta che l'abbia accettata: "semel heres, semper heres", dicevano i giuristi dell'antica Roma ("una volta erede, erede per sempre"). Pertanto è bene ricordare che l'accettazione è irrevocabile e che provoca la cosiddetta confusione tra i patrimoni dell'erede e del defunto, con la conseguenza che i creditori di quest'ultimo potranno aggredire direttamente anche i beni dell'erede.
E' importante sottolineare che l'accettazione può essere fatta anche con dei comportamenti che, inequivocabilmente, segnalano la volontà dell'erede di accettare: pensiamo all'erede che richiede a un debitore del defunto il pagamento di un debito, o che (al contrario) preleva dall'eredità una somma di denaro per saldare un debito del defunto.
In questi casi il rischio per l'erede è di accettare un patrimonio nel quale ci sono più passività che parti in attivo.
Il primo modo per evitare i rischi della confusione tra i due patrimoni è rinunciare all'eredità con una dichiarazione fatta a un notaio o al cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e poi inserita nel registro delle successioni (art. 519 cod. civ.).
E' un atto molto drastico, che peraltro non può essere sottoposto a condizioni o termini, né può riguardare una sola parte dell'eredità; pertanto bisognerà riflettere bene sulla situazione patrimoniale del defunto prima di compierlo.
Un'altra strada da seguire è l'accettazione con beneficio d'inventario, fatta con una dichiarazione nelle stesse forme della rinuncia: questo tipo di accettazione consente di tenere separati i due patrimoni. L'effetto principale di ciò è che l'erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti.
Per poter trarre vantaggio da tale forma di accettazione, però, l'erede è tenuto appunto a redigere l'inventario, che consiste in un conteggio contabile per determinare attività e passività del patrimonio del defunto, compresi i beni mobili e immobili.
L'inventario dev'essere redatto entro tre mesi, che decorrono dal giorno della dichiarazione di accettazione con beneficio d'inventario se l'erede non ha il possesso dei beni ereditari, oppure dal giorno dell'apertura della successione o della notizia della devoluta eredità se l'erede è già nel possesso dei beni ereditari a qualsiasi titolo. 
Se l'erede che ha accettato con beneficio d'inventario non rispetta questi termini (salvo proroghe del Tribunale), è considerato erede puro e semplice.

venerdì 14 febbraio 2014

Droghe leggere e droghe pesanti: ecco cosa ha detto (veramente) la Corte Costituzionale

Dopo aver falciato il "Porcellum" (v. post relativo) la Corte Costituzionale è intervenuta anche sulla famosa legge "Fini-Giovanardi" in materia di stupefacenti, dichiarandola incostituzionale all'esito della Camera di consiglio del 12 febbraio scorso. 
Su giornali e social network si sono sprecati i commenti, soprattutto sull'aspetto della legge che ha fatto indignare di più alcuni settori della politica e dell'elettorato, cioè l'equiparazione fra droghe leggere e droghe pesanti. Equiparazione che, secondo molti, sarebbe stata travolta dalla sentenza, per cui ora il legislatore dovrà ripensare la disciplina in materia di stupefacenti tenendo presente che le droghe leggere e le droghe pesanti vanno trattate diversamente: lo dice la Corte Costituzionale!
In realtà le cose non stanno proprio così: non nel senso che chi fuma una canna deve essere trattato come un eroinomane, ma nel senso che la Consulta non ha dichiarato illegittima la Fini-Giovanardi per la tanto contestata equiparazione.
In attesa delle motivazioni della sentenza, infatti, dobbiamo attenerci al comunicato della Corte stessa, il quale chiaramente fa intendere che la Fini-Giovanardi è stata cassata per una questione di "tecnica legislativa".
Spieghiamoci meglio: l'oggetto della pronuncia della Corte non è una "legge", ma solo un paio di norme contenute in un decreto-legge (precisamente, artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272). 
Ora l'art. 77 della Costituzione, al secondo comma, prevede che quando il Governo adotta decreti-legge "in casi straordinari di necessità e di urgenza" le Camere devono convertirli in legge entro 60 giorni. La Corte Costituzionale ha più volte bocciato quelle norme dei decreti-legge che nulla avevano a che fare con l'oggetto del d.l. stesso, soprattutto se aggiunte durante la fase di conversione in legge, poiché estranee rispetto ai confini tracciati dal decreto originario. 
L'innesto di norme nuove, infatti, può avvenire solo "a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione", poiché altrimenti il Parlamento farebbe un "uso improprio" del suo potere di conversione (Corte Cost., sent. n. 22/2012). Tant'è vero, ricorda la Corte, che il regolamento della Camera prevede che in fase di conversione "Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge" (art. 96-bis, comma 7).
Nel caso della Fini-Giovanardi, il decreto 272/2005 era stato varato in occasione delle Olimpiadi di Torino, per far fronte a tale evento straordinario, e prevedeva - ad esempio - norme anti-terrorismo, assunzioni di poliziotti, finanziamenti per i Giochi e altre misure che non potevano essere adottate col procedimento legislativo ordinario in Parlamento, molto lungo e farraginoso.
La Corte, pertanto, ha solo rilevato un importante vizio "procedurale" perché oggettivamente le norme sulle droghe, inserite in sede di conversione, non rispettavano i requisiti richiesti dalla Costituzione in ordine al procedimento di conversione. Sul merito, cioè sulla correttezza o meno del considerare uguali tutti i tipi di stupefacenti, la Consulta non ha espresso alcun parere: chi ha scomodato la Costituzione e la Corte per legittimare la propria opinione sulle droghe, in un senso o nell'altro, di certo non ha reso un bel servizio alla nostra Carta fondamentale e ai giudici che ne garantiscono il rispetto.

P.S.: la mia opinione sulla Fini-Giovanardi non è certo positiva, avendo già parlato (seppure en passant) degli effetti assurdi che ha sul sistema carcerario. La mia, quindi, non è una presa di posizione a favore di quel provvedimento, che reputo anzi criticabile su molti fronti, ivi compreso quello dell'equiparazione tra le varie droghe. Il senso di questo articolo è spiegare da un punto di vista giuridico-costituzionale una sentenza che molti interpretano (spesso in mala fede) in modo totalmente errato solo per attaccare la Consulta o, al contrario, per portare i giudici costituzionali dalla parte dell'antiproibizionismo.

venerdì 24 gennaio 2014

Esposti, denunce, querele e scritti anonimi: differenze e validità degli atti

Il cittadino che intende rivolgersi alla giustizia per tutelare i propri diritti dovrebbe sempre chiedere consigli ad un legale; tuttavia, specie quando si tratta di questioni di minore importanza, la tentazione di agire da soli è forte. Perciò, quando si prendono carta e penna è necessario sapere almeno la forma migliore per entrare in contatto con gli organi competenti, poiché spesso si fa confusione nel linguaggio comune tra esposto, denuncia e querela: ciascuno di questi atti, invece, ha presupposti diversi e a volte può anche sottintendere un "fine diverso", cioè una tutela più o meno ampia richiesta alla giustizia.
Cominciamo dall'atto forse più informale tra quelli citati, ovvero l'esposto. Lo scopo di tale atto è quello di risolvere bonariamente una lite fra privati con l'intervento delle Forze dell'Ordine: serve quindi a sollecitare la mediazione dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, che può convocare le parti per dirimere la contesa e redigere anche un verbale.
E' importante sapere che in genere si dovrebbe usare lo strumento dell'esposto solo per fatti che non costituiscono reato, come quelli che possono riguardare piccole questioni condominiali; infatti, se ciò che si espone configura un reato procedibile d'ufficio la P.S. deve informare l'Autorità Giudiziaria: sono reati di questo genere tutti quelli che non sono perseguibili a querela di parte, cioè per espressa volontà della persona offesa che chiede la punizione del colpevole. Converrà essere cauti, pertanto: non sempre chi espone un fatto vuole un intervento così duro come quello della giustizia penale, ma proprio per questo è bene consultare un legale per sapere le conseguenze di ciò che si sta per raccontare.
Si intuirà, da quanto detto, che la denuncia è l'atto con il quale il privato porta a conoscenza della giustizia un reato procedibile d'ufficio del quale ha notizia: salvo alcuni gravi reati, in genere la denuncia è facoltativa e non è vincolata a limiti di tempo.
La querela è invece un atto con il quale la vittima di un reato non procedibile d'ufficio non solo espone che è stato commesso un illecito penale, ma chiede anche la punizione del colpevole. Ecco perché spesso gli avvocati usano la locuzione "denuncia-querela": si denuncia il fatto (con la "notitia criminis", cioè notizia di reato), ma si chiede anche la punizione del suo presunto autore; se contestualmente ci sono più fatti, alcuni procedibili d'ufficio e altri solo dietro querela, l'atto presentato servirà a coprire tutte le fattispecie dal punto di vista procedurale. In termini non tecnici, si può dire che con la querela il destino del colpevole dipende dal querelante, che infatti entro certi limiti può anche ritirare la querela; invece con la denuncia la giustizia seguirà il proprio corso poiché il reato è procedibile d'ufficio. La querela è infatti anche una "condizione di procedibilità", cioè un requisito la cui mancanza determina l'impossibilità di punire il presunto autore del reato.
Trattandosi di un atto abbastanza complesso, è sempre meglio sporgere querela per mezzo di un legale, poiché spesso risulta difficile tradurre i fatti di cui si è stati vittima in ipotesi di reato: per esempio, la vittima può non sapere che alcuni fatti che sembrano secondari costituiscono invece delle aggravanti che rendono il reato procedibile anche d'ufficio. La querela può essere presentata al Pubblico Ministero o ad un ufficiale di Polizia Giudiziaria, anche oralmente; attenzione ai tempi, poiché per quasi tutti i reati la querela va presentata entro tre mesi da quando la vittima ha avuto notizia del reato.
Chiarite le differenze fra i tre atti, chiudo con un accenno ad una prassi purtroppo molto in voga nel nostro Paese, quella di inviare alle Autorità scritti anonimi sotto varie forme (esposti, denunce etc.) per segnalare presunti reati. 
Tendenzialmente gli scritti anonimi non devono essere presi in considerazione dalla giustizia penale: l'art. 333 c.p., in particolare, afferma che delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso. A maggior ragione ciò dovrebbe valere per la querela, non essendo individuata la vittima che chiede la punizione del colpevole.
Gli scritti anonimi, quindi, non impongono alcun obbligo di procedere, anche se vanno fatte due precisazioni.
La prima è che una denuncia o una querela anonime possono costare al loro autore (se individuato) una condanna per calunnia, se egli incolpa volontariamente un innocente o simula a carico di quest'ultimo le tracce di un reato.
La seconda è che la denuncia anonima, come detto, non obbliga l'Autorità Giudiziaria ad iscrivere la notizia di reato nell'apposito registro: malgrado ciò, dato che gli organi di giustizia e la Polizia Giudiziaria possono svolgere indagini di propria iniziativa quando vengono a conoscenza di fatti penalmente rilevanti (anche leggendo un'inchiesta giornalistica, per esempio), è chiaro che tali organi potranno avviare un'indagine autonomamente, specie se gli scritti anonimi sono ben circostanziati o provenienti (presumibilmente) da persone diverse.


lunedì 6 gennaio 2014

L'azione penale obbligatoria: cos'è e perché è importante per il cittadino "semplice"

L'articolo 112 della Costituzione stabilisce che "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale", ma da qualche anno torna ciclicamente l'ipotesi di modificare questa norma per trasformare l'azione penale da obbligatoria a discrezionale. Il tema può sembrare interessante solo al "circolo dei giuristi" e agli addetti ai lavori, ma forse da un punto di vista procedurale non c'è norma più importante per il cittadino che sia vittima di un reato. Vediamo perché.
L'obbligo dell'azione penale, tradotto in parole povere, significa che il magistrato (PM) venuto a conoscenza di una notizia di reato (es.: con una denuncia) deve compiere ogni atto di indagine utile per valutare la fondatezza di tale notizia, per stabilire cioè se la legge penale sia stata violata e chi debba eventualmente risponderne.
Se ritiene fondata la notizia, il Pubblico Ministero chiederà il rinvio a giudizio del presunto autore del reato, altrimenti opterà per la richiesta di archiviazione.
Questo meccanismo assicura soprattutto l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.): se l'azione penale fosse discrezionale, solo il cittadino "ricco" potrebbe permettersi un buon avvocato per convincere l'Autorità Giudiziaria a procedere. Mi spiego con un esempio: in Francia esiste un sistema "misto" per alcuni reati meno gravi, poiché il magistrato che riceve una denuncia può decidere di non procedere per ragioni di opportunità, di politica criminale e così via. Per "costringerlo" a proseguire e indagare, la vittima del reato deve formulare una querela con costituzione di parte civile, ma deve pure pagare una cauzione: è facile immaginare che un tale meccanismo può ingenerare discriminazioni.
Infatti, in un caso che qualche anno fa fece discutere molto, un cittadino francese si è rivolto alla Corte Europea dei diritti dell'uomo denunciando l'imposizione di una cauzione che non poteva permettersi, e la Corte ha riconosciuto che a quel cittadino era stato negato l'accesso alla giustizia (diritto fondamentale dell'uomo). Del resto quando sentiamo che negli USA un personaggio famoso viene scarcerato pagando una cauzione di milioni di dollari, la nostra coscienza ci suggerisce che lo stesso diritto non sarebbe stato assicurato ad una persona normale e non abbiente.
Altro esempio: una donna viene costantemente perseguitata dall'ex con appostamenti, minacce velate, comportamenti aggressivi e così via, ma per paura non si rivolge alla giustizia. E' giusto o sbagliato, secondo voi, garantire comunque la difesa della donna anche se il magistrato viene a conoscenza dell'accaduto da terzi e la donna, per sudditanza nei confronti dell'aggressore, non "insiste" nel pretendere la punizione dell'ex?
Qualcuno può obiettare: ma anche se il PM ha l'obbligo di fare le indagini non è detto che le faccia bene, per cui è possibile che chieda l'archiviazione e che la vittima resti priva di tutela. In realtà il codice di procedura penale, proprio per garantire pienamente il rispetto degli artt. 3 e 112, prevede un importante meccanismo: dato che il PM formula la richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari (GIP), quest'ultimo ha un forte potere di controllo sulla richiesta e può sia ordinare al PM di compiere nuove indagini, sia imporgli di formulare l'imputazione, cioè di promuovere l'accusa in giudizio riconoscendo la fondatezza della notizia di reato (art. 409 c.p.p.).

Come si vede, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale è determinante per garantire un eguale accesso alla giustizia, impedendo che la persecuzione dei reati sia dettata da scelte ideologiche, religiose, politiche o comunque da ragioni diverse dalla necessità di assicurare il rispetto della legge: perché, allora, la politica tenta da anni di mettere mano a tale principio? La risposta, senza nemmeno spremersi troppo le meningi, è fin troppo facile...

giovedì 2 gennaio 2014

Il Porcellum "incostituzionale": come stanno le cose?

Qualche giorno fa la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legge elettorale 270/2005, il cosiddetto "Porcellum", dichiarandone la parziale illegittimità su due fronti: da un lato, la Consulta ha dichiarato incostituzionali le norme "che prevedono l'assegnazione di un premio di maggioranza - sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica - alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione". Dall'altro, ha bocciato "le norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali 'bloccate', nella parte in cui non consentono all'elettore di esprimere una preferenza''.
Le motivazioni della Corte saranno note presto e, quindi, è prematuro ogni commento sulla decisione; non è invece prematuro qualche commento sulle reazioni avute da alcuni esponenti del Parlamento. Alcuni dicono: sono illegittimi solo i deputati e senatori eletti col premio di maggioranza.
Altri affermano: il Parlamento è tutto illegittimo, si faccia una nuova legge elettorale e si vada al voto.
I più catastrofisti incalzano: 
l'attuale Parlamento è illegittimo e di conseguenza è illegittimo ogni atto emanato dai due rami (Camera e Senato), in particolare la rielezione di Napolitano, la fiducia accordata al Governo etc. 
Io direi: calma, ragioniamo col buon senso e con la Costituzione in mano.
Primo: il premio di maggioranza, argomento sollevato soprattutto dal MoVimento 5 Stelle che ha pubblicato i nomi dei parlamentari eletti grazie a tale meccanismo. In realtà, la legge è stata dichiarata incostituzionale anche per le liste bloccate, per cui volendo essere coerenti sarebbero "illegittimi" anche quelli che vorrebbero defenestrare i colleghi eletti col premio di maggioranza. Non si capisce perché non si dimettano, visto che (ragionando come loro) sono "illegittimi" esattamente come gli altri, anche se per un altro motivo.
Secondo: quelli che dicono di andare a nuove elezioni, o con una nuova legge da approvare o con il Porcellum stesso, non si ricordano di un piccolo particolare. Se le Camere non sono legittime, come fanno a fare una legge elettorale legittima? E se il Porcellum non è legittimo, dove sarebbe la legittimità del nuovo Parlamento?
Terzo: la Costituzione, citata a sproposito da molti parlamentari che forse l'hanno letta ma non capita, afferma che quando la Corte Costituzionale "dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione" (art. 136). Si dice, tecnicamente, che la abrogazione avviene "ex nunc" ("da ora", ossia dal momento della pronuncia) e non retroagisce "ex tunc" ("da allora", cioè all'indietro, fino all'entrata in vigore della norma).
Per fare un esempio, se Tizio viene condannato e incarcerato per il reato (immaginario) di "starnuto in pubblico" nel 2013 e la Corte abroga tale reato nel 2014, gli effetti della condanna cesseranno nel 2014 ma l'atto in sé della condanna non è "illegittimo" perché al momento della pronuncia la norma di legge era costituzionalmente legittima. Allo stesso modo, erano legittimi gli atti che da quella norma derivavano: una denuncia, le indagini, il rinvio a giudizio, il processo...e così via fino alla condanna. Quindi, la elezione dei parlamentari era legittima.
In caso contrario, non ci sarebbe via d'uscita: il Presidente della Repubblica non potrebbe sciogliere le Camere perché queste erano illegittime e illegittimamente lo hanno eletto; il Governo non potrebbe far nulla (nemmeno in via ipotetica) perché ha ottenuto la fiducia da un Parlamento illegittimo e quindi non potrebbe legittimamente emanare atti...per non parlare delle precedenti elezioni: che ne sarebbe, infatti, delle leggi e degli atti emanati dai Parlamenti eletti nel 2006 e 2008 col Porcellum? Tutti illegittimi?
Quarto: la Consulta stessa ha affermato che "il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali". Questa affermazione della Corte è stata totalmente ignorata dai sostenitori della teoria dell'illegittimità, ma in realtà risolve il problema perché dice ai parlamentari: fate una nuova legge, stavolta rispettosa della Costituzione, ma fatela perché avete questo potere di "scelta politica". Non si capisce perché la Corte dovrebbe riconoscere al Parlamento tale potere legislativo solo in ordine alla legge elettorale e non anche per ogni altro atto.
Per cui i Parlamentari, anziché litigare su chi sia più santo e immacolato, si diano da fare: li paghiamo per questo.

venerdì 27 dicembre 2013

Il Governo alle prese con il processo (poco) civile

Con un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri il 17 dicembre 2013 il Governo ha inteso mettere mano ad un processo civile che, secondo tutti gli osservatori, rappresenta uno degli ostacoli principali allo sviluppo economico del nostro Paese. Purtroppo negli ultimi anni gli interventi legislativi hanno soltanto reso il sistema più instabile e complicato, senza risultati rilevanti sulla riduzione del processo e sulla sua efficienza.
Anche l'ultima proposta governativa si muove su questa ambiguità di fondo: partire da princìpi giusti per poi tradurli in norme confuse, tralasciando invece quei suggerimenti che circolano in ambienti legali (seppure in poche e inascoltate "isole felici") e che potrebbero garantire il risultato che la politica si propone da tempo.
Cominciamo dalle buone intenzioni, com'è sicuramente quella di attribuire al giudice il potere di disporre, quando si tratta di causa semplice, il passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Per i non addetti ai lavori, il primo è il processo civile "normale", mentre il secondo ne è una versione "ristretta", con minori rigidità soprattutto nella fase istruttoria e dell'assunzione delle prove. Il problema è che già oggi accade spesso che il giudice passi dal rito sommario a quello ordinario: si verifica quindi l'esatto contrario di quanto auspica il disegno di legge, il che solleva leciti scetticismi sull'efficacia del meccanismo, anche perché si rischia di trattare con due procedimenti diversi (ordinario e sommario) due cause simili solo perché un giudice ha discrezionalmente ritenuto "semplice" una causa che l'altro ha ritenuto complessa, cosa che non garantisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l'uguale tutela del diritto al contraddittorio.
Un'altra buona intenzione, inseguita però in modo assai dubbio, è quella di diminuire il carico dei giudici di primo grado e di appello. Ai primi viene attribuito il potere di emettere una sentenza in "formato tascabile", mi si perdoni l'atecnicismo: potranno infatti limitarsi a redigere il dispositivo (cioè la parte che accoglie o respinge la domanda, condanna una parte o l'altra etc.) accompagnato dall'indicazione dei fatti e delle norme sulle quali si fonda la decisione, rimettendo alle parti la scelta se richiedere la motivazione estesa ai fini dell'impugnazione della sentenza.
Dicono infatti gli autori della riforma: poiché soltanto il 20% delle sentenze rese in primo grado sono impugnate e circa il 77% di queste ultime sono confermate, il giudice di primo grado non deve perdere tempo a scrivere le motivazioni della sentenza a meno che non glielo chieda espressamente la parte che intende fare appello. Meglio che il giudice spenda quel tempo nelle altre cause. In realtà questa idea è quasi surreale per almeno due ragioni: se non so quale ragionamento ha fatto il giudice per condannarmi, come faccio a proporre appello? Anche perché, e questa è la seconda ragione, il disegno di legge impone a chi vuole impugnare la sentenza (e quindi avere le motivazioni) l'anticipato versamento di una quota del contributo unificato dovuto per il grado successivo: il che vuol dire che devo pagare una parte delle spese del giudizio d'appello solo per avere le motivazioni e decidere se impugnare o meno. Un paradosso, visto che un grande giurista del passato diceva che il più alto segno di civiltà giuridica è la motivazione della sentenza: del resto l'art. 111 della Costituzione stabilisce che "tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati".
Meno dissennata, invece, è l'idea di consentire ai giudici d'appello di rifarsi alla motivazione già esposta dal giudice di primo grado, ovviamente in caso di conferma del provvedimento impugnato, sempre per "risparmiare tempo"; così come è buona l'idea di assegnare a un organo monocratico anziché collegiale gran parte delle cause d'appello, limitando a pochi e più delicati casi l'intervento del collegio.
Ha fatto infuriare gli avvocati, poi, la norma che prevede che anche il difensore paghi insieme al cliente in caso di condanna per la cosiddetta lite temeraria, una regola che molti hanno definito punitiva nei confronti dei legali, ma che in realtà non mi sembra così scandalosa: la lite temeraria sussite in caso di mala fede o colpa grave; ciò significa o che chi ha agito/resistito in giudizio sapeva di non avere alcun diritto, e quindi ha causato un danno alla controparte col suo comportamento scorretto, oppure che non si è attenuto alle regole professionali (nel caso dell'avvocato) o alle regole del buon senso (nel caso del cliente), preferendo intasare i tribunali e ostacolare le giuste pretese dell'altro senza alcuna ragione di diritto. "Fare causa" è un diritto, non un obbligo: chi abusa di questo diritto va punito come accade per l'abuso di qualsiasi altra posizione giuridica di vantaggio.
Molti altri sono gli aspetti controversi delle proposte venute dal Consiglio dei Ministri, mentre - come si diceva in apertura - restano irrisolti alcuni nodi. Ne cito due, solo per dare uno spunto di riflessione.
Primo: perché non puntare ad uno snellimento del rito ordinario? Al momento, il processo civile ordinario prevede che l'attore citi in giudizio il convenuto: i due si "fronteggiano" con due atti diversi (citazione e comparsa di risposta), ai quali rispondono con le "memorie 183", ovvero tre atti distinti; poi ci sono le udienze per sentire i testimoni; poi, finalmente, le parti si scambiano altre memorie (le comparse conclusionali) alle quali rispondono con ulteriori atti (memorie di replica)...e per presentare ognuno di questi atti le parti hanno a disposizione un tempo assai ampio che in linea di principio sarebbe anche corretto, ma che finisce per dilatare all'infinito il tempo dei processi visto che ogni giudice ne ha da fare centinaia e forse migliaia. Snellire questo batti e ribatti non è proprio possibile, tenendo conto del fatto che spesso alcune delle memorie citate rappresentano mere ripetizioni di ciò che è stato detto in precedenza?
Secondo: perché non introdurre nel nostro sistema i "danni punitivi"? Ne ho parlato in un precedente post: in breve, Tizio deve a Caio 2.000 euro e si rifiuta più volte di restituirli. Si difende anche in giudizio, magari in modo pretestuoso, e per di più fa pure appello e ricorso in Cassazione tanto per tirarla per le lunghe. Passano otto anni e finalmente Caio ottiene i sospirati 2.000 euro, che però Tizio non gli dà in contanti costringendo Caio a pignorare i beni dell'altro (e via altri soldi per l'avvocato). Bene: quanto ci vuole a mettere una regola che "punisce" seriamente tali comportamenti costringendo il debitore che resiste a risarcire il creditore con una somma pari (ad esempio) a dieci volte quella richiesta in origine? Forse molti debitori smetterebbero di sfuggire e onorerebbero le proprie obbligazioni. In America fanno così: il risarcimento non è commisurato solo al danno patito, ma anche al comportamento tenuto, e infatti lì chi ha torto non ha interesse ad agire o resistere in giudizio, mentre ha tutto l'interesse a pagare subito o a fare una transazione. Il risultato è che il processo si fa solo quando serve. Ma si sa, gli altri sono sempre matti: siamo noi che abbiamo capito tutto...

martedì 5 novembre 2013

Il mobbing sul lavoro: la tutela nell'ordinamento vigente

La legge italiana non disciplina in modo specifico il fenomeno del “mobbing”, cioè quelle forme di vessazione, prevaricazione e pressione psicologica compiute indebitamente nei confronti di una sola persona, solitamente sul luogo di lavoro. In mancanza di tale disciplina, le vittime di mobbing devono quindi affidarsi alla versione elaborata nei tribunali, chiaramente frammentaria perché ciò che può apparire vessatorio in un contesto lavorativo e sociale può non sembrare tale in un altro.
Leggendo le varie sentenze rese dai giudici italiani sul tema, si può affermare che la vittima di mobbing ha più chance di ottenere tutela sul piano civile, e quindi sotto forma di risarcimento, mentre resta più vaga e debole la protezione offerta dal diritto penale.
In ambito civile, le varie ipotesi di indebita pressione psicologica o anche fisica sul luogo di lavoro sono state ricondotte nella fattispecie di cui all’art. 2087 c.c.
L’art. 2087 stabilisce infatti che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Secondo la Cassazione, quindi, grava sul datore di lavoro un obbligo specifico di proteggere l’integrità psico-fisica del lavoratore (Cass., sent. n. 4184/2006).
Ciò anche alla luce di quanto affermato dalla sentenza n. 399 del 1996 della Corte Costituzionale: secondo quest’ultima, il diritto alla salute viene salvaguardato anche mediante condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo diritto essenziale, di rilevanza costituzionale.
Per cui l’art. 2087 non abbraccia soltanto le ipotesi di mobbing, ma ogni tipo di situazione che minaccia o lede il diritto soggettivo del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi (Cass., sent. n. 4840/2006).
Tale orientamento ha consentito addirittura di inquadrare nell’ipotesi dell’art. 2087 quei casi in cui i comportamenti vessatori, pur non unificati da un disegno unitario, abbiano avuto l’effetto di mortificare psicologicamente il lavoratore, causandogli un danno: tutto ciò, ovviamente, fornendo la prova che il datore di lavoro sia venuto meno all’obbligo di attivarsi per tutelare la personalità del lavoratore.
Sul piano penale, come dicevamo, la tutela è più sfumata: ferma restando la possibilità di punire i singoli atti di prevaricazione (ingiurie, molestie, minacce etc.), manca una figura di reato che reprima quelle forme di persecuzione espresse concretamente con tali atti, ma legate da uno stesso intento vessatorio. Ciò pone un problema non di poco conto, perché i reati di ingiuria, molestia o minaccia sono puniti in modo assai blando.
In alcuni casi, tuttavia, le ipotesi di mobbing sono state ricondotte al reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, previsto dall’art. 572 c.p., recentemente oggetto di una mini-riforma nel 2012: prima di tale riforma, mancava un riferimento alla “convivenza” (es.: coppie di fatto), ma già si estendeva il concetto di famiglia alle forme di coabitazione simili. Sulla base di ciò, la Cassazione ha ammesso l’applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche alle ipotesi di mobbing sul luogo di lavoro purché il contesto lavorativo si caratterizzi per modalità, abitudini, affidamento e fiducia tipici della comunità familiare (Cass., sent. n. 12517/2012; Cass., sent. n. 16094/2012).
In sostanza, la possibilità di reprimere penalmente il mobbing come una particolare forma di maltrattamento contro un convivente è legata al requisito della para-familiarità della relazione lavorativa, che dovrà essere provato dalla vittima dimostrando la particolare forma di organizzazione del luogo di lavoro, la qualità delle relazioni e l’informalità delle stesse, le consuetudini della vita lavorativa e così via.
Se dunque una minima tutela penale esiste,  è evidente che la vittima sopporta un onere della prova non certo leggero, e che ad ogni modo resta priva di ogni protezione una vasta area di episodi e situazioni: si pensi ai casi di dequalificazione o demansionamento della vittima per ottenere le sue dimissioni, o a quei casi in cui atti in sé legittimi (es.: richiami disciplinari, comunicazioni) siano utilizzati per uno scopo diverso dal normale, solo per mortificare il dipendente.